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ottobre/novenbre/2004 - Analisi
Analisi
Nella guerra al terrorismo l'errore sembra pianificato
di Paolo Pozzesi

Iraq e Cecenia. Nella moderna Babilonia, dopo il rapimento e l’uccisione di Enzo Baldoni , il sequestro di Simona Pari e Simona Torretta. E nel Caucaso, la strage nella scuola di Eslan. Il terrorismo islamico colpisce senza requie, inserendosi in conflitti che hanno connotati molto diversi tra loro. Un attacco globale, al quale George W. Bush e Vladimir Putin, e i loro supporters (che a volte sono gli stessi) dichiarano di voler rispondere con una guerra altrettanto globale. Definire fosco lo scenario che si preannuncia per l’immediato futuro, è quasi riduttivo.
Qualcuno parla di “scontro di civiltà”, e invoca una “solidarietà occidentale”. Lo ha fatto, in un’intervista a La Repubblica del 30 agosto scorso, Marcello Pera, presidente del Senato, seconda carica istituzionale della nostra Repubblica. “I terroristi – ha detto Pera – i quali non sono pochi gruppi fanatici ma un grandissimo fronte che attraversa tutto il mondo islamico, proclamano la sharia e dichiarano la jihad. Vogliono colpire l’America, l’Europa, l’Occidente. Vogliono, come loro dicono, abbattere Ebrei e Crociati. In una parola, sono determinati a distruggere la nostra civiltà, quella della libertà, delle istituzioni democratiche e della tolleranza”. Pera se la prende con i “tanti intellettuali europei” che mettono l’accento sulle colpe dei paesi occidentali nei confronti dei popoli islamici. Ma in particolare stigmatizza “i leaders europei. Tutti vedono e tutti sanno, ma i più non parlano e non agiscono. Alcuni addirittura fuggono, altri fanno capire che non è affar loro, o pensano che sia colpa dell’America che se l’è cercata e ben le sta se non sa come cavarsela”. E critica (“salvo poche eccezioni lodevoli e autorevoli, come quelle del cardinale Ratzinger, del patriarca Scola, di monsignor Caffarra”) “i cristiani credenti e praticanti… una grande parte del clero o tace o marcia per la pace, come se non fosse affar suo difendere la civiltà europea cristiana”. Come raro esempio di preveggenza, il Presidente del Senato cita Oriana Fallaci e il suo pamphlet violentemente antiislamico, notando compiaciuto che i suoi lettori, solo in Italia, “fanno un partito politico”. Ma soprattutto taglia corto sulle polemiche a proposito della strategia di “guerra preventiva” adottata dai neoconservatori americani: “Truppe sì, truppe no, svolta sì, svolta no, dopo gli ultimi avvenimenti è una discussione tardiva”.
Tardiva, e perciò inutile, fuori luogo, dato che ormai “siamo tutti in guerra”? Non è di questa opinione, fra i tanti, il cardinale Renato Martino (probabilmente non uno dei prelati apprezzati da Pera), presidente del Consiglio pontificio Giustizia e Pace: “Quale guerra? Guerre preventive? Contro chi? Dove? A parte ogni considerazione, una guerra preventiva avrebbe senso contro un paese preciso, contro uno Stato che si sta armando per aggredire, o che si presume stia mettendo in atto una minaccia. Ma qui il colpo viene in autobus, per strada, nelle scuole, sferrato da un soggetto diffuso che mette in atto una guerra al di fuori di tutti i canoni politici e giuridici elaborati da secoli… Allora al primo punto cè l’utilizzazione della diplomazia e dell’intelligence. E’ un lavoro lungo e paziente da fare sistematicamente”. Già. La diplomazia per coordinare un’attenzione e uno sforzo comuni (stanando e denunciando qualsiasi tipo di connivenza, da parte di chiunque, per interessi politici ed economici), e l’intelligence per scoprire e reprimere le reti terroriste. Perché, e i fatti purtroppo lo provano ogni giorno, il terrorismo non teme le guerre, con soldati, cannoni, carri armati, bombardieri; al contrario, il terrorismo ha bisogno di guerre che gli consentano di inserirvisi e di lanciare, nel caos provocato, i suoi messaggi aberranti di odio e di morte.
In questa prospettiva, parlare di “scontro di civiltà”, sia pure in termini ambiguamente velati, e di “terrorismo globale”, equivale ad accettare il suo gioco. Osama bin Laden, per fare un nome diventato cupamente emblematico, non è il campione dell’indipendenza della Cecenia, o della liberazione dell’Iraq, e neppure di uno Stato palestinese. Non esiste uno scontro generale tra Islam e Occidente. Vi sono, politicamente e geograficamente, situazioni conflittuali diverse tra loro, che le centrali terroriste cercano di sfruttare agitando la bandiera di una fede comune.
La Cecenia chiede la sua indipendenza da due secoli, dai tempi dell’impero zarista (nel 1850, il giovane tenente Lev Tolstoi si trovò a combattere contro il ribelli di quella regione), e con l’Unione Sovietica la questione fu sopita ma non risolta. Nel 1944 Stalin fece deportare buona parte dei ceceni nel Kazakhstan e in Siberia: una misura crudelmente drastica, nel suo stile, che però aveva un antefatto. Quando, nel 1941, Hitler attaccò l’Urss, scoppiò una rivolta, e i capi indipendentisti invitarono la popolazione ad accogliere i tedeschi, che stavano raggiungendo il Caucaso, come “ospiti graditi”. Circa 50mila ceceni si arruolarono nella Legione SS Nordcaucasica, partecipando alla repressione della Resistenza nei paesi europei occupati, e combattendo sul fronte occidentale dopo lo sbarco in Normandia nel giugno ’44. Curiosamente, Vladimir Putin, tre giorni dopo la strage di Eslan, in una conferenza stampa ha esaltato il coraggio di quei collaborazionisti, definendoli “eroi”, anzi “più eroi” di molti altri durante la Seconda Guerra Mondiale. Mano tesa, o chissà; comunque oggi Putin vorrebbe che la crisi cecena, e la repressione militare russa, fosse inquadrata nella guerra globale al terrorismo dichiarata da Bush: “ßSe gli americani e i loro alleati lo fanno in Iraq, perché noi non possiamo farlo in Cecenia?”.
Certo, proseguendo sul filo di questa “logica” che affastella errori e bugie, giustificando i primi con le seconde, e viceversa, il terrorismo avrà vita lunga. La guerra in Afghanistan non ha portato alla cattura di Osama bin Laden, che del resto (essendo un criminale, ma non uno stupido) si era trasferito altrove, con armi e militanti, pochi giorni dopo l’11 settembre 2001, lasciandosi dietro qualche campo di addestramento disattivato. Quanto all’Iraq, la “guerra sbagliata, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, per i motivi sbagliati”, come dicono molti negli Stati Uniti, è servita solo a provocare migliaia di morti e feriti, a distruggere un paese, e ad aprire le sue frontiere a gruppi di terroristi che prima non avevano mai potuto mettervi piede. Non c’è più il dittatore Saddam Hussein, ma non c’è più nessuno. La sicurezza è inesistente, persino nel centro di Baghdad, ma gli occupanti si occupano solo di bombardamenti e di petrolio. E la guerra continua, con il pretesto che chiunque si ribelli all’occupazione è un terrorista. Non vi è da stupirsi che, in questo caos, i terroristi autentici prolifichino. E che colpiscano, come obiettivi mirati, le donne e gli uomini che lavorano per la pace, i loro veri nemici.

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