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Gennaio/Febbraio/2005 - Analisi
Diritti umani, ma non per tutti
di Paolo Pozzesi

Un accoppiamento di parole esemplare, che definisce sinteticamente ciò che deve essere riconosciuto, e garantito, a ogni essere umano. E’ un antichissimo problema, la Storia, si sa, consiste essenzialmente in una serie infinita di tirannie e di prevaricazioni, e i pochi che hanno tentato di opporvisi hanno spesso avuto una triste sorte. Lo stesso termine “democrazia” ha all’origine un equivoco: basti dire che nell’Atene “democratica” le donne e gli schiavi non avevano alcun diritto. Bisogna arrivare al 1789, alla Rivoluzione Francese, per avere la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, che però ebbe scarsa applicazione, limitata nel tempo e nello spazio.
Per venire ai nostri giorni, o quasi, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità una Dichiarazione Universale sui diritti umani, alla quale successivamente si aggiunsero varie convenzioni integrative. Nell’insieme, un documento eticamente perfetto, che incontrò subito un cammino difficile nella sua concreta applicazione. Certo, la “guerra fredda” in questo ebbe il suo peso, con ognuna delle due parti che interpretava la Dichiarazione secondo il proprio punto di vista, o meglio, secondo il proprio interesse. L’Unione Sovietica e i suoi satelliti insistevano sulle, reali, disuguaglianze sociali ed economiche esistenti nei Paesi capitalisti, mentre l’Occidente, schierato con gli Stati Uniti, denunciava la, altrettanto reale, mancanza di libertà politiche e religiose che vigeva nel blocco dell’Est. Con una massiccia dose di malafede in entrambi i fronti.
Mentre non era affatto vero che a Mosca e dintorni le condizioni sociali ed economiche dei cittadini fossero ineccepibili, non era vero nemmeno che Usa e Occidente si comportassero ovunque come degli adamantini vessilliferi di libertà. Gli esempi non mancano: la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei Colonnelli, per restare in Europa. Altrove, in Africa, in Asia, in America Latina (vedi il Cile), si interveniva addirittura per instaurare dittature sanguinarie. Del resto, l’Unione Sovietica, quando ne aveva l’occasione, si comportava nello stesso modo.
Poi, vi è stato, con l’evento vistoso della caduta del Muro di Berlino (in realtà, non una causa ma un segno di mutazione), il disfacimento del blocco sovietico, e della stessa Urss, fenomeno unico nel suo genere, una sorta di implosione di quei regimi che sotto l’etichetta “socialista” (che tutti traducevano in “comunista”) avevano instaurato sistemi di potere fortemente autocratici. Più che la sconfitta, si era prodotto il ritiro volontario di uno dei due contendenti, lasciando all’altro l’onore, e l’onere, di una vittoria forse troppo facile. A questo proposito merita di essere citato un brano di un articolo di Mario Soares, presidente del Portogallo dal 1986 al 1996, pubblicato da l’Unità nel dicembre scorso proprio per ricordare l’anniversario della Dichiarazione dell’Onu: “Con la caduta del Muro di Berlino abbiamo assistito al fenomeno – straordinario e non violento – del collasso del comunismo. E il mondo dette un giro di 180 gradi. Fu proclamata l’universalità dei diritti umani e della democrazia alla portata di tutti i popoli, così come la promessa di una pace perpetua, vecchio sogno di Emmanuel Kant. Che illusi! La disintegrazione della Jugoslavia, lacerata da conflitti etnico-religiosi, e la Guerra del Golfo furono i primi segnali di quel che ci attendeva. E poi arrivò l’11 settembre 2001, un orrore allo stato puro. Fu evidente l’immenso pericolo del terrorismo islamico o globale, insieme alla vulnerabilità dell’iper-potenza. E siamo precipitati in un mondo inquietante dove l’importanza dei diritti umani è stata coscientemente screditata con il pretesto della preoccupazione per la sicurezza”.
Detto questo, Soares dichiara “fuori discussione che la lotta al terrorismo globale – o guerra, come imprudentemente la ha chiamata Bush – è un imperativo assoluto con il quale dobbiamo essere fermamente solidali”. Il punto sta nel condurre questa lotta con “intelligenza critica”, per vincerla. Evitando che il nucleo di terroristi “irriducibili” (per utilizzare una definizione un tempo corrente dalle nostre parti) possa venire alimentato da reazioni controproducenti, o del tutto sbagliate. Non occorre dire che il terrorismo è nemico dei diritti umani: appare quindi evidente che la loro difesa è il primo strumento per contrastarlo e sconfiggerlo. Violare le convenzioni internazionali, come è accaduto in Afghanistan con l’illegale e assurdo campo di prigionia di Guantanamo, e in Iraq con una guerra “preventiva” inutile e disastrosa per vinti e vincitori (a parte i “soliti noti” che hanno sempre ben presente il loro tornaconto), equivale nei fatti a favorire la strategia perversa del terrorismo.
Il fatto è che ai diritti umani bisognerebbe crederci davvero, e non usarli di tanto in tanto come bandiera di comodo. Se è vero che l’Unione Sovietica non esiste più, è anche vero che i diritti umani delle popolazioni che ne facevano parte spesso non si trovano in eccellenti condizioni. Vogliamo dire che non ci interessa? O che non ci riguarda? A quanto sembra, è così. E non ci riguarda che l’Arabia Saudita, nazione islamica amica dell’Occidente, e accorta fornitrice di petrolio, sia oppressa da un regime feudale, da una teocrazia tirannica dove anche la proprietà privata è una concessione di chi detiene il potere.
Tutto questo, e altro ancora, si sa, ma non si dice, o a dirlo sono solo pochi, e poco ascoltati. Le regole, anche quelle dell’informazione, sono stilate dagli interessi del mercato, più o meno globale, e allora i regimi sono “buoni” o “cattivi” a seconda di come vi si inseriscono. Il mercato non è né contrario né favorevole ai diritti umani, semplicemente non gli interessano. Non gli interessa, ad esempio che la Cina fosse dominata da un regime dittatoriale che si dichiarava comunista, e che tale sia rimasta: gli interessa, e molto, che questa Cina si sia rapidamente modernizzata nelle sue strutture, e in parte anche nel suo volto esteriore, divenendo quindi una protagonista della globalizzazione mercantile. In Cina la parola libertà era e resta priva di significato: qualsiasi segno di dissenso (politico, religioso, culturale) è represso con il carcere, la tortura, la morte: le condanne capitali, eseguite in pubblico ogni anno sono più numerose di quelle registrate complessivamente nel resto del mondo. Ma questa situazione atroce passa in secondo piano di fronte alle leggi del mercato. Il presidente Ciampi, guidando una delegazione italiana, della quale facevano parte 200 operatori economici, in uno dei suoi discorsi, ha voluto ricordare ai dirigenti cinesi il primo articolo della Costituzione europea: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza”. Pronunciata in quell’occasione, da un uomo di Stato che è anche un grande esperto di economia, la citazione assume un significato di invito a una ragione superiore alla produzione e alla circolazione di merci.
Nessuno può negare l’importanza, la necessità del mercato. La Storia ci insegna che il sistema degli scambi ha spesso favorito la circolazione delle idee tra culture diverse, divenendo un fattore di progresso in ogni senso. Ma la Storia ci dice anche che questo non è andato sempre a vantaggio di tutti, che molte volte vi è stato chi ha riscosso e chi ha solo pagato. Così va il mondo? Forse, però non dimentichiamo che i peccati, anche quelli di omissione, prima o poi si scontano. Perché i diritti umani o sono un bene unanimemente condiviso, o non esistono.

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