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Aprile-Maggio/2005 - Analisi
Meglio fidarsi degli americani
di Paolo Pozzesi

La drammatica conclusione del sequestro di Giuliana Sgrena con l’uccisione di Nicola Calipari da parte di una pattuglia americana, e il ferimento della giornalista e di un ufficiale del Sismi, accanto al dolore e a pesanti interrogativi su quanto è accaduto, suscita l’esigenza di osservare con maggiore attenzione la (mai finita) guerra in Iraq. Operazione difficile, perché ormai quella guerra, con la partenza obbligata di tutti gli inviati dei media, si svolge in un buio informativo, senza testimoni. Sappiamo solo quelle briciole di notizie che il “comando della coalizione” (eufemismo per indicare lo stato maggiore americano) comunica alle agenzie di stampa. Non vogliamo dire con questo che i generali Usa siano dei bugiardi inveterati. Anzi, agli americani non piacciono le menzogne, e quando scoprono che un loro dirigente ha mentito non gliela perdonano. Il fatto è che le informazioni sugli avvenimenti iracheni passano attraverso il filtro di un’amministrazione che molti americani accusano di aver falsato la verità fino dall’inizio di questa sanguinosa avventura. E di continuare a farlo. Il che non è confortante. Ed è addirittura sconsolante che ad ogni avvenimento o situazione che spinge ad esprimere dubbi sulle assicurazioni di Bush e dei suoi collaboratori, vi sia sempre qualcuno (e sempre gli stessi) ad ammonire, più o meno minacciosamente, che l’unico rischio è quello di comportarsi da “antiamericani”.
Un modo sbrigativo per tacitare qualsiasi possibile critica. Analogo all’accusa di fare “polemiche strumentali”. Evidentemente in Italia sono consentite solo le polemiche sul campionato di calcio. Per altri argomenti, magari leggermente più gravi, sarebbe d’obbligo un fiducioso, e silenzioso, riserbo. In America no, si polemizza su tutto, e nessuno si sogna di negare questo diritto ad alleati e ad avversari politici.
Comunque, ci sembra lecita qualche considerazione alla luce di quello che si riesce a sapere. La prima è che nell’Iraq odierno, avviato alla democrazia e alla normalità dopo le elezioni del 30 gennaio (molto decantate, pochissimo viste, e niente affatto controllate), non solo si rischia di essere rapiti in pieno giorno nel centro della capitale, ma che nell’eventualità fortunata della liberazione i pericoli restano, e si fanno persino più seri. Tanto che è consigliabile andarsene in gran fretta dal paese, rinunciando alla protezione (che sembrerebbe logica) delle “forze occupanti”. Una scelta che nel caso della liberazione di Giuliana Sgrena è stata ben meditata, e condivisa con Palazzo Chigi, con il quale Nicola Calipari e l’ufficiale del Sismi erano stati in contatto fino al momento della sparatoria. Ora attendiamo i risultati delle due inchieste, quella americana, con la partecipazione di due osservatori italiani, e l’altra, per motivi tecnici molto più irta di difficoltà, della magistratura romana. Con fiducia ? Certo, con fiducia, dato che preferiamo non inseguire pregiudizialmente ipotesi di complotti, ma anche con la speranza che non si arrivi a una conclusione “ad usum Delphini”, cioè buona per soddisfare il volgo.
Una seconda considerazione potrebbe essere che tra le “forze occupanti”, lontani da Baghdad e verosimilmente ignari di ciò che accade nel resto dell’Iraq vi sono tremila militari italiani(e lì resteranno non si sa quanto tempo, dopo che il presidente del Consiglio ha smentito l’annuncio da lui fatto in tv di un ritiro a partire da settembre). Anche di questi nostri militari sappiamo poco, o meglio nulla. I tg e i giornali ne hanno parlato negli ultimi mesi solo in occasioni di due eventi luttuosi, e quando si è dovuto rifinanziare la missione. Ma che cosa faccia il contingente italiano in quel campo trincerato nei pressi di Nassiriya, è quasi un enigma. Se è vero, come asseriscono alcuni esponenti del governo senza però fornire chiarimenti a questo proposito, che stanno addestrando aspiranti militari e agenti di Polizia iracheni, perché questa attività non viene resa pubblica ? Documentandola con particolari, riprese televisive, foto, tutti elementi che potrebbero dare un’immagine positiva della presenza dei nostri uomini in divisa. Altrimenti, a cosa serve tenere tremila ufficiali e soldati tra i meglio preparati delle nostre Forze Armate in una condizione da “deserto dei Tartari” ?
D’altra parte viene da chiederci chi potrebbero essere questi aspiranti soldati e poliziotti iracheni. La zona di Nassiriya, da quanto si può dedurre, è controllata dalle milizie sciite di Moqtada al Sadr, il leader ribelle fino a non molto tempo fa considerato dal comando americano un nemico da eliminare. Ora al Sadr mantiene le sue posizioni, sta a vedere come si evolverà la situazione, e si muove indisturbato. Non per colpa degli italiani. Lo stesso accade a Bassora, dove le milizie di al Sadr sfilano in armi, e nel marzo scorso - è solo un esempio, ma inquietante - hanno ucciso tre studenti, tra cui una ragazza, accusati di “comportamento immorale” per aver partecipato a un picnic. Il tutto senza che i militari britannici, che presidiano la città, muovano un dito.
Ecco, bisogna concludere che a guardarla con attenzione, la guerra in Iqaq non assume un aspetto meno sgradevole. E, ripetiamo, non si tratta di essere antiamericani. Del resto nessuno, in Italia e in Europa, è veramente ostile agli Stati Uniti in quanto nazione. E aggiungiamo che per quanto ci riguarda, siamo sicuri che se qualcuno riuscirà a rivelare le verità nascoste di questo conflitto, saranno appunto degli americani, perché in questo, come in molte altre cose, sono senza dubbio i migliori.

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