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Luglio-Agosto/2005 - Analisi
Analisi
La malattia dell'Europa? I falsi europeisti
di Paolo Pozzesi

La diagnosi, venendo da medici di diverse sponde, dovrebbe essere giusta: l’Unione Europea è in crisi, è malata. Prima i “no” all’approvazione della nuova Carta costituzionale nei referendum in Francia e in Olanda, poi il fallimento del vertice dei governi a Bruxelles sul bilancio 2007-2013. Troppi segnali negativi per un’Unione che recentemente era partita verso l’alto aprendo le sue porte ad altri dieci Paesi, sette dei quali provenienti da quello che era stato l’“impero” sovietico.
Congelata di fatto la Costituzione, si è preso atto del dissenso esistente tra i governi dell’Ue sulle strategie economiche comunitarie, con l’intento dichiarato di risolverlo per il meglio, e per quanto possibile. Apparentemente il dissenso verte essenzialmente sulla Pac, la Politica Agricola Comune, alla quale la Gran Bretagna ritiene (è la posizione attuale di Tony Blair, ma ricalca fedelmente quella espressa nel 1975 da Margaret Thatcher) che siano dedicate eccessive risorse (il 40% di un bilancio Ue di 100 miliardi di euro, l’1% del Pil dei Paesi comunitari), a scapito della ricerca, dell’innovazione industriale e delle infrastrutture. A questo proposito, la Gran Bretagna, dal 1984, riceve ogni anno dall’Unione 4,7 miliardi di euro come compenso per gli scarsi benefici che le spettano a titolo di sussidi agricoli e di aiuti per le regioni ancora poco sviluppate. I maggiori beneficiari della Pac sono Francia, Italia e Spagna, i maggiori produttori dell’Ue nel settore agro-alimentare, che - e questo spiega l’intervento comunitario - è l’unico a essere completamente federalizzato, vale a dire a essere sottoposto a un controllo totale dell’Unione. Va sottolineato inoltre che la Politica Agricola Comune riguarda in larga misura sia la protezione dei cittadini europei in quanto consumatori di prodotti alimentari, sia la difesa delle campagne e dell’ambiente naturale.
Detto questo, l’agricoltura è solo uno degli aspetti di una crisi che è profondamente politica. Nel senso che riguarda quel modello europeo di integrazione pensato per essere molto di più di una zona di libero scambio. Del resto, l’avvio dato a questo processo di “unione dell’Unione” era stato promettente all’inizio del nuovo millennio, fino al culmine conseguito con l’introduzione dell’euro, che – al di là di aumenti di prezzi, conosciuti anche dalle vecchie monete - ha salvato, e continua a salvare, le economie europee, compresa quella italiana. Poi, la prima seria spaccatura, in politica estera: la guerra in Iraq. Una spaccatura che, pur se tutti i partner europei vorrebbero dimenticarla, ha lasciato il segno, con pesanti ripercussioni politiche ed economiche.
Dal 1° luglio scorso ha avuto inizio il semestre di presidenza britannica dell’Ue, e Tony Blair ha voluto inaugurarlo annunciando un suo programma di “rinnovamento” dell’Unione che ha suscitato più diffidenza che speranzose adesioni. Il fatto è che all’europeismo dei leaders britannici, che siano laburisti o conservatori, nessuno ha mai davvero creduto. E non a torto, visti gli atteggiamenti degli interessati, che hanno sempre considerato al primo posto la partnership con i “cugini” americani. In un commento pubblicato sul Corriere della Sera del 19 giugno 2004, Sergio Romano scriveva che la Gran Bretagna nel 1975 era “entrata nella Comunità per controllarne e rallentarne l’integrazione”.
E Lamberto Dini, vicepresidente del Senato e ministro degli Esteri nei governi dell’Ulivo, conferma questa opinione in un’intervista a l’Unità del 23 giugno scorso: “Non sarà certo da Londra che potremo attenderci un nuovo impulso per superare l’attuale situazione di crisi. Pensare che si possa fare tutto ascoltando il premier Blair è semplicemente una illusione. E’ fantapolitica. La Gran Bretagna è sempre stata un freno all’integrazione europea e Blair non farà eccezione… Personalmente ho vissuto questa situazione durante i lavori della Convenzione europea. I rappresentanti britannici, su input di Blair, hanno lavorato alacremente per una soluzione al ribasso, e sempre per ridurre il grado di integrazione europea”.
Eppure, presentandosi al Parlamento europeo, Blair ha iniziato con una veemente dichiarazione di europeismo che doveva rispondere alle accuse rivoltegli nella stessa sede dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, il suo predecessore alla guida dell’Ue nel primo semestre del 2001. Juncker aveva recriminato il fallimento del vertice sul bilancio comunitario, attribuendone la responsabilità ai soliti britannici. Con pesante, e poco diplomatica, ironia, si era spinto a dire: “Io vi racconto come sono andate davvero le cose, perché non lo saprete mai da chi verrà dopo…”. Applausi e risate. Ora, al gioviale Tony l’ironia piace, ma quando è lui a usarla, e se si tratta di mettere in dubbio la sua sincerità, gli bastano e avanzano le frecciate dei suoi compatrioti, che, anagrammandone il cognome, lo hanno soprannominato B-liar, il bugiardo.
E la risposta è stata precisa, sintetizzata in una parola; “modernizzazione”. Che, com’è noto, può significare tutto e nulla. Secondo Blair, il bilancio difeso da Juncker (e da Francia, Germania, Spagna) non va in questa direzione. Non sarebbe “moderno” privilegiare l’agricoltura rispetto alla ricerca e alle sovrastrutture che stimolano la produzione e il consumo (ad esempio, le autostrade, che fanno difetto ai nuovi partner dell’Est; o non sarebbe meglio puntare sulle ferrovie?). Per non stuzzicare quelli, e non sono pochi, che lo ritengono il Cavallo di Troia di Washington, il premier britannico ha appena accennato all’America, e ha insistito su Cina e India, che si preparano ad essere “le due più grandi economie nel mondo”. Seguite, da Paesi come il Vietnam e la Thailandia.
Si dovrebbe aggiungere che questi Paesi, in primo luogo la Cina, devono il loro slancio produttivo a condizioni sociali abnormi, che uniscono insieme il peggio del capitalismo e del collettivismo, con una casta ristretta di miliardari e una massa di lavoratori-sudditi pagati con un pugno di riso. Comunque, ha ammonito Blair, l’Europa deve affrontare questa sfida, aggiungendo che per farlo ha bisogno di “una leadership”. Cioè di un leader, che forse potrebbe chiamarsi Tony B-liar, pardon, Blair. Tanto più, insinuano i maligni, che in patria la sua carriera sembra conclusa. In questo scenario inquietante, (funestato dalla minaccia subdola e strisciante delle stragi terroriste) Blair vede con favore l’ingresso di nuovi partner dell’Unione Europea.
Ben vengano Turchia e Croazia, seguiti da Bulgaria e Romania. In contrasto con Jacques Chirac, che europeista è sempre stato, il quale – scottato dal negativo referendum francese - suggerisce che ogni allargamento dovrebbe essere valutato tenendo conto delle attuali capacità di integrazione dell’Unione. Anche lo scorso anno fu la Gran Bretagna ad insistere per l’entrata nell’Ue dei dieci Paesi, che di fatto - anche per lo scarso entusiasmo europeo dei nuovi arrivati, più attratti da amichevoli vincoli con gli Usa - ha intralciato il progetto federalista degli europeisti più convinti. Già, a pensar male si fa peccato, ma… con quel che segue.

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