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settembre/2005 - Analisi
Da New Orleans una dura lezione
di Emilio Belfiore

“La situazione a New Orleans rimette in discussione tutti i piani del governo e delle autorità militari per la sicurezza interna dopo l’11 settembre. Se non siamo stati capaci di rispondere più rapidamente di così a un uragano che da giorni vedevamo avvicinarsi, come possiamo illuderci che saremmo capaci di rispondere a un attacco con armi nucleari o biologiche”: a lanciare questo preoccupato atto di accusa, dopo il disastro di Katrina, non è stato un esponente del partito democratico, ma il repubblicano Newt Gingrich, ex presidente del Congresso, un conservatore duro e puro. E John Sweeney, deputato repubblicano di New York, ha precisato: “Il governo ha un dovere verso il popolo americano: in un momento come questo deve affidare la direzione dei soccorsi ai leader più esperti e capaci. Negli ultimi giorni è diventato penosamente ovvio che la sfida ci ha colti alla sprovvista”. Né Gingrich, né Sweeney hanno nominato Gorge W: Bush, ma è “penosamente ovvio” che l’oggetto delle critiche è proprio lui, il Presidente: non ha saputo, lui e il suo governo, agire adeguatamente prima e durante la catastrofe, ora sarebbe meglio che si facesse da parte lasciando che ad affrontare l’emergenza siano altri.
E chi potrebbero essere questi “altri”? Lo stesso Sweeney ha fatto i nomi di Rudy, ex sindaco di New York, e di Colin Powell, ex segretario di Stato. Anche se repubblicani (o forse proprio perché repubblicani) nessuno dei due sarebbe gradito a Bush. Giuliani è troppo popolare, e mira alla Casa Bianca, che George W. dovrà lasciare fra tre anni, ma che farebbe gola al fratello Jeb. Powell, prestigioso ex generale, lo aveva seguito obtorto collo nell’avventura irachena, e con il secondo mandato presidenziale era stato sostituito da Condoleeza Rice: e ora è andato in televisione a dire che “I pericoli per New Orleans erano noti da tempo. Si poteva fare qualcosa, ma non è stato fatto”.
In realtà Bush, ritenendo che, per forza di cose, la situazione tenderà a normalizzarsi, spera di avere l’occasione di recuperare i consensi perduti legando il suo nome più alla ricostruzione che alle carenze che l’hanno resa necessaria. Del resto, il Presidente ha deciso di dirigere personalmente la commissione di inchiesta, il che equivarrebbe a recitare contemporaneamente il ruolo del giudice e dell’imputato, come ha subito sottolineato la senatrice Hillary Clinton: “Il governo non dovrebbe mai indagare su se stesso, soprattutto questa amministrazione che in passato non ha fatto che assolversi. Nella tragedia provocata da Katrina ho visto un grande fallimento da parte del governo nel rispondere ai bisogni della gente nell’area colpita. L’inchiesta deve esserci, ma deve essere indipendente, sul modello di quella che indagò sul fiasco dell’intelligence prima dell’11 settembre”.
Il fatto è che Katrina ha messo in luce alcuni caratteri fondamentali dell’attuale amministrazione repubblicana, improntata a una visione neoconservatrice che tende a ridurre sempre più le capacità di intervento dello Stato. Una filosofia che ha come punti fermi la drastica riduzione della spesa pubblica, che avrebbe il torto di rendere i cittadini dipendenti dall’aiuto dello Stato, e il trasferimento di ogni iniziativa al settore privato, eliminando le ultime tracce di welfare, in particolare per quanto riguarda sanità, scuola e opere pubbliche. Questo per consentire cospicue riduzioni delle tasse (per i più ricchi, che sono tali perché più intraprendenti), e limitare l’azione del governo alla sicurezza in campo internazionale e alla tutela della proprietà privata. Detto questo, lo Stato deve riservare sovvenzioni alle grandi aziende per consentire loro di prosperare in nome della libera iniziativa. Una scelta che naturalmente ha i suoi riscontri, che a volte possono rivelarsi pesantemente negativi.
“E’ quello che è successo nel lungo e vergognoso periodo che ha preceduto l’arrivo di Katrina – scrive sul britannico Independent Johann Hari – quando Bush ha scelto di ignorare i rischi di sicurezza pubblica a New Orleans rispettando i princìpi della sua ideologia, tagli, tagli, e ancora tagli alla spesa pubblica. Per anni i rappresentanti eletti della Louisiana hanno chiesto più fondi per difendere New Orleans dalle inondazioni, citando decine di rapporti sui pericoli di un uragano sulla città (considerato una delle tre minacce più gravi per la sicurezza dell’America). Ma ci sarebbe voluto un progetto pubblico di ampio respiro, che non avrebbe portato vantaggi immediati ai grandi gruppi industriali, in antitesi con la filosofia di Bush. E’ per questo che invece di stanziare più risorse, il budget del genio militare per la costruzione di argini a New Orleans è stato tagliato del 44 per cento”. E se è vero che non era possibile fermare l’uragano, l’allagamento della città sotto sei metri d’acqua è stato causato dalla grande falla sul lago Pointchartrain, e dalla rottura di tre argini. Il disastro era prevedibile, conferma Mike Davis, docente di teorie urbane noto a livello mondiale: “Tutti sapevano che sarebbe potuto accadere. Alcuni miei amici ingegneri hanno anche proposto delle soluzioni per proteggere la città dagli uragani. Ma l’amministrazione Bush, naturalmente, ha rifiutato di finanziarle, anzi ha ridotto i fondi per progetti preesistenti”.
E quando è giunta l’emergenza, quando si è deciso che New Orleans doveva essere evacuata, ci si è affidati all’iniziativa dei singoli cittadini, ritenendo che ogni famiglia avrebbe dovuto utilizzare la propria auto. E dimenticando che una cospicua minoranza degli abitanti, in gran parte neri, non possiede un’auto, e non saprebbe dove andare. Così qualche decine di migliaia sono stati stipati nel grande stadio coperto Superdome, dove è accaduto di tutto, altri si sono rifugiati sui tetti e nelle zone più elevate della città, altri ancora, forse più di diecimila, sono morti affogati in un enorme stagno di acqua, fango, liquami di fogna e residui di idrocarburi fuoriusciti dalle raffinerie della costa danneggiate o distrutte dall’uragano.
La Fema, l’agenzia federale incaricata della difesa civile, si è rivelata tragicamente inadeguata. Il suo capo, Michael Brown era stato per undici anni, fino al 2001, presidente dell’associazione ippica Iaha (International Arabian Horse Association), licenziato per scarso rendimento e uso “fantasioso” dei fondi sociali. Con questi precedenti, Brown era passato, nel 2003, a occuparsi della campagna per la rielezione di George W., e subito dopo era stato nominato al vertice della Fema: “Ha il curriculum giusto per gestire le emergenze”, aveva sentenziato Bush. E infatti il lunedì 29 agosto, quando Katrina aveva già raggiunto New Orleans, Michael Brown, che ripeteva ai suoi collaboratori: “L’importante è fare bella figura con la Casa Bianca”, scriveva in un rapporto inviato al governo: “Inutile usare un linguaggio che impaurisca. Inutile richiedere rinforzi di vigili del fuoco o di militari agli stati vicini. La Fema è pronta ad intervenire con cibo, acqua e assistenza”. Perfetto, peccato che non fosse vero.
Ora, Brown, malgrado l’amicizia con George W. è stato messo da parte. Ma la dura lezione di New Orleans va al di là della sua figura.

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