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Maggio-Giugno/2007 - Analisi
Se chiamiamo “pace” la guerra
di Belphagor

Dovrebbe essere lo “zar delle guerre”, una definizione che già a pronunciarla non suona di buon augurio: con la nomina del generale tre stelle Douglas L. Lute a supremo coordinatore dei conflitti in Iraq e in Afghanistan, il presidente George W. Bush ha voluto creare un nuovo ruolo di comando, nella speranza che ridistribuendo le carte il gioco prenda un andamento più favorevole. Certo, non è un segnale positivo il fatto che tutti i generali quattro stelle interpellati prima di Lute abbiano risposto “no, grazie”, ritenendo che l’incarico non offrisse serie probabilità di successo.
Ma, a parte i dubbi su una conduzione unitaria di due conflitti molto diversi tra loro, la nomina del generale Lute potrebbe porre un altro problema, che riguarda da vicino il nostro contingente militare in Afghanistan. Premettendo, a scanso di legittime ma inutili polemiche, che non si tratta di essere “pacifisti” o “interventisti”, bensì di guardare - e di dire chiaramente - le cose come sono veramente, il che troppo spesso viene trascurato.
L’Italia è in Afghanistan, con circa 2.000 militari, dal gennaio 2002, nel quadro della missione multinazionale Isaf (International Security Assistance Force), autorizzata, il 20 dicembre 2001, da una decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Per la missione è prevista una durata di sei mesi, sempre rinnovata con Isaf II, III, IV, e così via. Quando Isaf arriva in Afghanistan sono ancora in corso le operazioni di Enduring Freedom, l’offensiva del corpo di spedizione americano e britannico che, con l’appoggio dei Signori della Guerra del nord, ha scacciato i talebani (e il loro alleato terrorista Osama bin Laden) da Kabul e dalle principali città. Formalmente, la guerra - che ufficialmete non è mai stata dichiarata, né seguita da trattati di pace - è considerata conclusa, anche perché a Washington già si progetta la guerra in Iraq, e il contingente americano deve essere ridotto. La mano dovrebbe passare a Isaf - una coalizione eterogenea di 37 nazioni, con circa 30.000 effettivi -, ma Isaf ha il compito di assistenza al nuovo governo di Kabul, addestramento dell’Esercito e della Polizia afgani, ricostruzione, assistenza sanitaria: non è attrezzata per combattere, e nei suoi regolamenti non è previsto che lo faccia.
Però la guerra non è finita, sta solo covando sotto la cenere le sue braci sempre accese. Nel sud, alla frontiera con il Pakistan, Enduring Freedom continua la sua caccia ai talebani, e a un evanescente Osama bin Laden.
L’11 agosto 2003, la Nato subentra alla guida di Isaf - con un leggero stravolgimento dello statuto dell’Alleanza atlantica - e la guida politica della missione viene delegata al North Atlantic Council (Nac), che gestisce anche il coordinamento con i Paesi non aderenti alla Nato che contribuiscono all’operazione.
Nasce così una strategia Nato per realizzare il programma di Isaf che si propone di mettere in atto una Fase di espansione in quattro tempi, procedendo in senso antiorario:
- 1° Stage: Area Nord
- 2° Stage: Area Ovest
- 3° Stage: Area Sud (entro la primavera 2006)
- 4° Stage: Area Est (entro la fine del 2006)
In ogni regione, i Provincial Reconstruction Team (Prt) dovrebbero essere i centri dinamici per creare una situazione stabile attraverso un processo di ricostruzione socio-economica dell’area. Il procedere della Fase di espansione doveva coincidere con l’attuata “pacificazione” di ogni area da parte di Enduring Freedom, che si supponeva avrebbe fatto con diligente rapidità il lavoro duro. Un intoppo: qualcuno si era dimenticato di informare i talebani, e di chiedere loro se erano d’accordo sulle scadenze del progetto.
Va detto che i Prt, come quello di Herat affidato agli italiani e agli spagnoli, hanno preso subito ad assolvere con efficienza le loro funzioni, sia pure con un largo dispendio di mezzi militari, indispensabili ad assicurare un minimo di protezione. Non solo contro i talebani: gli atti ostili - imboscate, attentati con Improvised Explosive Device (Ied) o bombe artigianali, fino alla propaganda spicciola - vengono anche dai narcotrafficanti, dalla criminalità comune, o dai contadini che hanno un reddito magro ma sicuro dalla coltivazione dei papaveri da oppio.
Sulla carta il programma di Isaf si è svolto regolarmente, tanto che il 5 ottobre 2006 si dichiarava completato il 4° Stage, quello riguardante l’Area Est, e Enduring Freedom è passata dalla guida Usa a quella Nato. Sulla carta, perché sul terreno la realtà era da tempo ben diversa: i talebani si erano riorganizzati, avevano ingrossato i loro ranghi, e tenevano testa alle forze statunitensi, appoggiate da reparti britannici, spingendosi anche nelle zone dell’interno. Insomma, gli “studenti di religione” hanno scombinato il meccanismo “antiorario” così accuratamente messo a punto, e mentre la Nato dichiarava che ormai l’intero territorio afgano era sotto la sua responsabilità, la guerra si stava estendendo. E gli americani sostenevano che se la Nato aveva il comando di Enduring Freedom e di Isaf, era giusto che tutti i partner della coalizione partecipassero alla guerra, che stava diventando sempre più dura. In concreto, non era chiaro – e non lo è neppure oggi – se Isaf avesse inglobato Enduring Freedom, o se fosse accaduto il contrario.
Nel giugno 2006, il generale Fabio Mini (che nel 2002 aveva guidato le operazioni di pace in Kosovo), in un’intervista a Peace Reporter delineava un quadro che, a distanza di un anno, resta attuale: “Il problema dell’ampliamento della missione Isaf-Nato, e quindi anche della partecipazione militare italiana, è di carattere giuridico prima che operativo. In quanto tale esso diventa istituzionale, e non può essere lasciato alla solo valutazione tecnico-militare. Il problema nasce dall’inserimento di Isaf in un contesto artificiosamente dichiarato post-bellico, e dalla sottovalutazione della capacità dei guerriglieri talebani di costituire un’aperta minaccia nei riguardi delle forze Usa, del governo di Kabul e di chiunque lo appoggi”. Ma è possibile che Isaf, mantenendo le sue regole, diventi una “missione di guerra”? “Il fatto che i contingenti Isaf dovranno farsi carico della guerra ai talebani, per conto di Washington o di Kabul, impone senza dubbio un esame serio della situazione e lo scioglimento dei nodi giuridici… La cosa peggiore che possa succedere è che si assumano nuovi impegni e nuovi rischi mantenendo i vecchi criteri d’impiego e le ipocrisie di sempre: fingendo che la situazione sia ‘normale’, ignorando o negando la sovrapposizione di Isaf a Enduring Freedom, spacciando per ricognitori dei campi d’oppio dei caccia bombardieri, per missionari di pace degli incursori e sabotatori superaddestrati all’infiltrazione in territorio ostile e alla guerra asimmetrica”.
I fatti, purtroppo, sono questi, e ci si chiede come intende affrontarli il nuovo “zar delle guerre”. Aumentando le pressioni affinché i partner Nato entrino apertamente in azione, rischia di vedere molti di loro defilarsi e lasciare il campo. Oppure, si troverà una sorta di accordo che, chiamando la guerra “operazioni di pace”, consenta interventi più o meno mascherati, e lasci la situazione in uno stato instabile e indefinito?

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