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Febbraio-Marzo/2008 - Analisi
Afghanistan: missione Torre di Babele
di Belphagor

Pochi giorni dopo la morte del maresciallo Giovanni Pezzullo, ucciso dai talebani mentre stava distribuendo viveri e medicinali a Rudbar, sessanta chilometri da Kabul, sull’autorevole giornale britannico Sunday Telegraph è stato pubblicato un editoriale, accompagnato da alcuni servizi, dedicato al conflitto afghano. Titolo: “La Nato non dovrebbe offrire un passaggio gratuito ai parassiti”. La definizione di “parassiti”, secondo il Sunday Telegraph, riguarderebbe italiani, spagnoli e tedeschi, perché “Spagna, Italia e Germania fanno affidamento sullo sforzo di Regno Unito e Usa, nella speranza di beneficiare dei frutti di una maggiore sicurezza, ma senza fornire un aiuto significativo”. Certo, le critiche, e anche le accuse, di un giornale non costituiscono un caso diplomatico, ma il fatto è che esse si inseriscono nel coro di reciproche recriminazioni e incomprensioni che da qualche tempo accompagna la presenza in Afghanistan di due missioni militari occidentali. E già in questa frase si enuncia la prima, importante, incomprensione. Le missioni sono due, ma a volte alcuni – come l’editorialista del Sunday Telegraph – fingono che siano una sola, o che comunque una debba essere sottoposta all’altra. Infatti, quando parla di “sforzo di Regno Unito e Usa” l’editorialista si riferisce ovviamente a “Enduring Freedom”, la missione militare americana-britannica, che dal novembre 2001 è impegnata a combattere le milizie dei talibani. Gli italiani, con altri Paesi, si trovano in Afghanistan all’interno della missione Isaf (International Security Assistance Force), costituita su mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2001 “con il compito di garantire un ambiente sicuro a tutela dell’Autorità afgana”. Inoltre l’Isaf partecipa ai Prt (Provincial Reconstruction Teams), gruppi di militari che con l’ausilio di operatori civili attuano operazioni di ricostruzione nelle varie province afgane. Dall’11 agosto 2003 il comando e il coordinamento di Isaf è stato affidato alla Nato.
Come spesso accade, all’inizio del problema c’è un equivoco, più o meno voluto. La prima fase del conflitto in Afghanistan, condotto da americani e britannici con il sostanzioso concorso dei “signori della guerra” afghani, si era conclusa con la rapida sconfitta e dissoluzione dei talibani, lasciando da risolvere il problema della cattura di Osama bin Laden, del mullah Omar, e di pochi altri capi jihadisti. Sarebbe stata l’occasione ideale per concentrare le forze al fine di garantire veramente la sicurezza di quel Paese, e stabilire delle condizioni accettabili sul piano economico e sociale. Ma l’Amministrazione Bush era ansiosa di dare il via all’intervento in Iraq, e di conseguenza decise che la guerra in Afghanistan era stata vinta definitivamente. Una valutazione ottimistica del resto condivisa anche dai governi che si preparavano a partecipare alla missione Isaf, ma purtroppo affrettata, e profondamente sbagliata. Assumendo il comando di Isaf, la Nato aveva elaborato una strategia per espandere il controllo su tutto il territorio afgano, procedendo per fasi successive, in senso antiorario, da nord a ovest, a sud, a est, supponendo che il passaggio da una fase all’altra avrebbe coinciso con la totale “bonifica” di ogni zona da parte di “Enduring Freedom”. Sulla carta è stato così, sul terreno le cose sono andate in modo diverso. I Prt, come quello di Herat affidato agli italiani, hanno cominciato a dare buoni risultati, affrontando notevoli difficoltà, fra le quali l’indispensabile protezione contro “atti ostili” provenienti da varie parti, con diverse motivazioni. Però, la guerra condotta dagli americani e dai britannici di “Enduring Freedom” non era finita, anzi si stava riaccendendo. Soprattutto nel sud-est, sulle montagne che segnano un incerto confine con il Pakistan, dove i talibani in fuga si erano rifugiati – e dove forse si trova ancora Osama bin Laden, a meno che non si sia trasferito in qualche oasi sicura – trovando nuove reclute nell’etnia pashtun.
La situazione è questa, confusa perché si è partiti da presupposti che non hanno trovato riscontro nella realtà. Il 5 ottobre 2006, completata formalmente l’ultima fase di espansione di Isaf, “Enduring Freedom” sarebbe passata dalla guida Usa a quella Nato. Non si sa bene che cosa sia cambiato. Le due missioni, con compiti molto diversi tra loro, continuano ad essere divise, come se ognuna perseguisse un proprio obiettivo con una sua strategia. Sembra diffondersi anche una notevole confusione delle lingue: Robert Gates, capo del Pentagono, rimprovera agli “alleati” di non saper combattere la guerriglia, il segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, ribatte che tutti “stanno facendo un eccellente lavoro”, ma poi chiede di mandare altri militari, senza spiegare a fare che cosa. A potenziare i Prt? A istruire l’Esercito e la Polizia afghani? A combattere? Condoleeza Rice, in missione a Kandahar, auspica l’unificazione delle due missioni, ammettendo però che manca la concordia necessaria. Il ministro della Difesa Arturo Parisi, all’ultima riunione Nato, ha detto che in Afghanistan “è fondamentale ricostruire una legalità. Invece troppo spesso quello che creiamo con una mano lo distruggiamo con l’altra”. L’allusione è chiara e precisa ai metodi sbrigativi di “Enduring Freedom”, che, non risparmiando vittime e danni civili per colpire i ribelli, secondo gli europei fa crescere l’ostilità della popolazione. Costruire la legalità, è un bel programma, ma come realizzarlo? Corrompendo i capi taliban? O, più pudicamente, “convincerli”? E che cosa bisognerebbe fare, altro problema, per “convincere” i contadini a trasformare le coltivazioni di papavero da oppio in innocui campi di grano? Come fare affidamento sul debolissimo governo Karzai e sulle corrotte Forze armate di Polizia? Chiacchiere, ribattono gli americani, e intanto siamo noi a fare il lavoro duro e pericoloso, e, tra l’altro, a garantire il passaggio attraverso la frontiera pakistana dei rifornimenti di Isaf, che altrimenti cadrebbero quasi tutti nelle mani dei talibani. Insomma, una Torre di Babele.
Nell’Analisi del numero di “PeD” del giugno 2007 riportavamo il parere espresso, un anno prima, dal generale Fabio Mini, già comandante delle operazioni di pace in Kosovo: “Il problema dell’ampliamento della missione Isaf-Nato, e quindi anche della partecipazione militare italiana, è di carattere giuridico prima che operativo. In quanto tale, esso diventa istituzionale, e non può essere lasciato alla sola valutazione tecnico-militare. Il problema nasce dall’inserimento di Isaf in un contesto artificiosamente dichiarato post-bellico, e dalla sottovalutazione della capacità dei guerriglieri talebani di costituire un’aperta minaccia nei riguardi delle forze Usa, del governo di Kabul e di chiunque lo appoggi”. In un commento (la Repubblica 14/2/2008) il generale Mini oggi scrive: “…Continuare a chiedere più forze senza mai rendere conto dei contributi ricevuti non è comprensibile ed è ingeneroso. E’ vero, come europei non abbiamo dato tutto quello che veniva richiesto, anche perché rientrava sempre in una strategia dell’uso della forza che si rendeva ogni giorno più inconcludente. Nonostante questo abbiamo continuato a mantenere gli impegni e a rispettare le regole pattuite con i limiti ben esplicitati e accettati. Che cosa ne è stato di questo impegno? Continuiamo a sacrificare i nostri soldati, e gli stessi afghani innocenti…”.
Sull’operato dei militari italiani in Afghanistan avevamo pubblicato nell’aprile 2006 un ampio reportage del nostro inviato Leandro Abeille. Parlavamo di “un Paese ancora in mezzo al guado” ma non privo di speranze, o addirittura di prospettive. Sono passati due anni, la situazione è di molto peggiorata, e i nostri sono ancora lì a fare il loro lavoro. Tutti, e loro per primi, sanno benissimo quali rischi corrono ogni giorno. La loro opera è stata e continua a essere positiva, professionalmente e umanamente corretta, ha fatto onore al nostro Paese. E’ giusto aggiungere che se devono restare in quella terra tormentata – e su questo non sembra vi siano molti dubbi – è assurdo continuare con una confusione dei linguaggi che può generare solo sconfitte e disastri. Per tutti.

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