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Gennaio/2009 - Analisi
Dietro lo schermo della Palestina
di Belphagor

L’operazione militare di Israele contro Hamas nella striscia di Gaza si è conclusa con un cessate il fuoco che difficilmente segnerà l’inizio di un duraturo processo di pace. A rendere inevitabile l’attacco, secondo le dichiarazioni del governo di Gerusalemme, era stata la violazione della tregua da parte di Hamas, con il lancio continuo di missili Kassam contro i centri israeliani situati in prossimità della frontiere con la striscia, ma tra le motivazioni politiche due appaiono più evidenti: le elezioni politiche di febbraio in Israele, e l’opportunità di concludere l’operazione prima dell’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama, per evitare al nuovo Presidente l’imbarazzo di dover affrontare a tamburo battente una situazione ancora aperta.
L’elevato numero di vittime civili, prevedibile dato la densità della popolazione, 1.500.000 persone in un territorio lungo 40 chilometri e largo 10, l’inserimento delle strutture militari di Hamas nel tessuto urbano dei centri abitati, e la determinazione israeliana di raggiungere il massimo dei risultati in tempi brevi, ha suscitato in campo internazionale deprecazioni, proteste e polemiche. Logiche e condivisibili sul piano umano, anche se resta sempre mal definito il concetto di “reazione contenuta” che si vorrebbe imporre ad Israele ogni volta che quel Paese viene colpito dai suoi vicini. Si potrebbe chiedere, ad esempio, quale nazione europea accetterebbe di essere di continuo, per oltre un anno, bersaglio di missili. E addirittura ricordare che dal 24 marzo all’8 giugno del 1999, Unione Europea e Stati Uniti, tramite l’Aviazione della Nato, furono d’accordo nel bombardare sistematicamente la Serbia, compresa Belgrado, e il Montenegro, in una guerra a senso unico mai dichiarata, come punizione per i misfatti di Milosevic e compagni in Kosovo. Ma, si sa, pesi e misure non sono sempre e ovunque eguali.
Comunque, stando a fonti israeliane, l’intervento aereo e terrestre sembra aver raggiunto un risultato molto parziale: solo il 20% del potenziale bellico di Hamas sarebbe stato distrutto, e i tunnel clandestini, utilizzati per far entrare nella striscia armi dall’Egitto, duramente bombardati durante i 22 giorni di offensiva, sono già in fase di riattivazione. Va detto che alcuni di questi passaggi sotterranei servono anche ad alimentare un florido mercato nero che finora ha alleviato in parte gli effetti del blocco terrestre e navale. “Gli abitanti lungo il confine dove i palestinesi gestiscono i tunnel come un’attività imprenditoriale – riferisce un inviato dell’agenzia Reuter – dicono che le forniture di carburante e stufe a cherosene sono già riprese in dozzine di gallerie che sono ancora in funzione. Mohammed, che gestisce uno dei tunnel, sostiene che lui e tre soci hanno pagato 40.000 dollari per costruire la via di rifornimento: ‘Sarà presto operativa, non ci porterò droga o armi, prevedo di portarvi quello che serve più alla gente, alimentari e carburante, ed è molto redditizio’. Hamas ed altri gruppi militanti usano dei tunnel propri per far entrare di nascosto armi, ma i giornalisti non vi possono accedere, ed è impossibile dire se abbiano ripreso ad operare”.
* * *
Una cosa è certa, o quasi certa: Barack Obama cercherà di riprendere la strada della trattativa tra governo israeliano e autorità palestinese, tornando ai punti che fecero fallire, con il rifiuto di Arafat, il vertice di Camp David del luglio 2000 tra Bill Clinton, il primo ministro israeliano Ehud Barak, e il leader palestinese. Certo, nove anni dopo i tempi sono cambiati, e non in meglio, e si pone l’esigenza primaria di affrontare in qualche modo il problema Hamas: un’entità composita (politica-militare-terrorista) che rifiuta l’esistenza di Israele e ne invoca la distruzione, è in conflitto (anche armato) con Al Fatah e la dirigenza dell’Anp, ma alle elezioni del 2006 aveva ottenuto la maggioranza dei voti palestinesi. Dopo questo successo elettorale Hamas, dopo una serie di scontri con le truppe di Al Fatah che avevano causato centinaia di vittime, si era impadronita della striscia di Gaza, instaurandoci un regime di matrice islamica sostenuto dall’Iran e dalla Siria, che ospita alcuni dei suoi capi.
Riuscirà il nuovo presidente americano a coinvolgere Hamas in un processo di pace? O, altra alternativa, a neutralizzarne l’indubbia influenza? La prima ipotesi nel migliore dei casi inserirebbe nella trattativa un interlocutore verosimilmente ostile a compromessi sui punti che furono al centro del primo Camp David: il ritorno dei profughi, le colonie ebraiche in Cisgiordania, lo statuto di Gerusalemme. La seconda presenta forse un numero ancora maggiore di incognite, richiedendo una strategia a largo raggio che gli Stati Uniti non possono condurre avanti da soli. E contando unicamente sull’alleato israeliano. Anche se Obama ha riaffermato la validità, e la legittimità, di quell’alleanza quando nel luglio 2008, durante la campagna elettorale, si era recato in Israele, e aveva dichiarato: “Se qualcuno lancia dei razzi contro la mia casa dove dormono le mie due figlie, io farò tutto quello che è in mio potere per fermare questa azione”.
Ora però Barack Obama deve andare oltre le dichiarazioni di principio, e trovare una linea che soddisfi, sia pure parzialmente, molteplici esigenze e interessi perennemente in contrasto tra loro. Martin Indyk – ambasciatore in Israele durante gli otto anni della presidenza di Bill Clinton, ricercatore della Brookings Institution, e oggi tra i consiglieri di Obama – nel gennaio scorso ha indirizzato al Presidente un memorandum, reso pubblico, dal titolo “Rinnovare la diplomazia in Medio Oriente”. Indyk invita ad avviare e sostenere delle riforme, guidate però da leadership locali; a instaurare un rapporto tra partner con i regimi arabi; non puntare a risolvere tutto e subito, ma scegliere una politica dei “piccoli passi”; non pretendere che gli Stati Uniti possano risolvere i problemi del Medio Oriente da soli. “In poche parole, Presidente – conclude il memorandum – la sua amministrazione ha bisogno di adottare una comprensibile strategia di lungo termine verso le molte minacce dell’area”.

* * *
“Le molte minacce dell’area”, dice Martin Indyk. E in effetti il conflitto israelo-palestinese non è l’unico problema del Medio Oriente – anche se a volte si tende ad avallare questa tesi, e, malgrado le apparenze, non è nemmeno il più grave. Fino dalla sua nascita nel 1948 Israele ha involontariamente - ma con gravi errori da parte sua - assunto un ruolo di alibi per tutti i regimi arabi. Non va dimenticato che per 18 anni la striscia di Gaza e la Cisgiordania erano stati nelle mani rispettivamente dell’Egitto e della Giordania, e da nessuno in Medio Oriente era stato chiesto che si ritirassero per consentire la creazione di uno Stato palestinese. Nemmeno dai palestinesi, ai quali in cambio dei loro diritti violati veniva predicata la distruzione di Israele.
Storia passata, certo, ma non è passata la tendenza a servirsi della Palestina come schermo dietro il quale nascondere altri contrasti, trame, interessi. Il panorama politico presentato da un’area che va dall’Africa del nord alle frontiere dell’India è caratterizzato da situazioni conflittuali tra Paesi “moderati” e “radicali”, e trasferendosi sul piano religioso tra sunniti e sciiti, “laici” e “integralisti”. Con un intrico di giochi incrociati, che vede, ad esempio, l’Iran sciita sostenere la sunnita Hamas, di concerto con l’Arabia Saudita, sua acerrima rivale, patria dell’integralismo waabita e “sicuro alleato” dell’America. Mentre l’ineffabile colonnello Gheddafi, da sempre amico e nemico di tutti, definisce i dirigenti arabi “deboli, vigliacchi, disfattisti”. Una situazione talmente aggrovigliata che anche al-Qaeda, in fase calante dopo essersi dedicata per alcuni anni a massacrare gli sciiti irakeni, ha manifestato l’intenzione di fare la sua parte.

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