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Ottobre/2010 - Analisi
Petrolio, banche e “guerra del pesce”
di Belphagor

Dalla sceneggiata romana, con predica islamica a duecento ragazze di bella presenza appositamente ingaggiate, alla sparatoria contro un peschereccio siciliano, in acque internazionali rivendicate dalla Libia, sono passate poco più di due settimane, a riprova che Muammar Gheddafi è destinato ad essere una presenza ricorrente sulla scena italiana. Una presenza per alcuni aspetti grottesca, per altri irritante, per altri ancora (forse i più significativi) utile e pericolosa nello stesso tempo, ma comunque tale da non poter essere ignorata, o tenuta in poco conto.
Gas, petrolio, finanza, immigrazione clandestina, guerra del pesce: su questi tavoli, che ci piaccia o no, dobbiamo giocare con il colonnello di Tripoli una serie di partite nelle quali egli ha quasi sempre le carte vincenti. E quando non le ha, se le prende. Perché Gheddafi è un interlocutore spesso imprevedibile. Anomalo, come il personaggio. A parte il titolo onorifico di “Guida della Rivoluzione”, non ha alcuna carica istituzionale, ma è il dittatore e il padrone assoluto della Libia. In questa veste, ufficiosa ma universalmente accettata, è da lui che dipende ogni accordo o trattato, su qualsiasi argomento. Così è ovviamente accaduto per il trattato d’amicizia italo-libico firmato nel 2008 a Bendasi, il cui anniversario è stato già due volte celebrato da una visita di Gheddafi a Roma, con l’accompagnamento di tenda beduina, majorettes armate, cavalli berberi.
A questo proposito, però, si potrebbe ricordare che in realtà tra l’Italia e il Regno Unito di Libia nel 1957 era stato firmato – sotto l’egida dell’Onu – un trattato che chiudeva il contenzioso post coloniale e post bellico tra i due Paesi. L’Italia decretava il passaggio di proprietà alla Libia di tutte le infrastrutture costruite dagli italiani, e inoltre pagava un indennizzo. I contributi previdenziali degli italiani ancora presenti in Libia venivano passati al governo di Tripoli, con l’impegno di continuare a riscuoterli e di onorarli. Dopo il colpo di Stato militare del 1969 che abbatté la monarchia dei Senussi, Gheddafi annullò il trattato del 1957, dichiarò l’Italia “nemico esterno”, ed espulse i 20.000 italiani, confiscando tutti i loro beni, compresi i contributi previdenziali.
Acqua passata. Da allora i governi italiani, senza distinzione, hanno cercato di trovare accordi in qualche modo accettabili con un “cliente” che di volta in volta alzava o cambiava le sue richieste. E va detto che alle questioni economiche sovente si affiancavano altri intrecci, oscuri ed inquietanti, con risvolti anche drammatici. Il gas e il petrolio, certo, ma non solo. Ad esempio, non è stato mai chiarito il ruolo esercitato dai nostri servizi segreti nelle situazioni conflittuali che si creavano tra Gheddafi e alcuni Paesi occidentali nostri alleati, quali gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia. In un quadro piuttosto fosco, che vedeva il colonnello in ambigui rapporti con gruppi terroristi mediorientali attivi anche in Europa. Ma anche questa è acqua passata.
Oggi i rapporti italo-libici sono basati su alcuni punti che dovrebbero essere fermi, ma non sempre lo sono. Tutto bene per quanto riguarda i soliti gas e petrolio, e non è poco. L’Eni, che in Libia è ormai di casa, ha assicurato le sue estrazioni fino al 2042.Le acque si fanno meno calme entrando nel campo della finanza. La Libia, grazie alle sue risorse energetiche, dispone di circa 150 miliardi di dollari in riserve di valuta estera, e questo le ha consentito di investire pesantemente nel mercato azionario italiano, acquisendo quote societarie di alto livello. Denaro naturalmente benvenuto (ricordiamo che alcuni decenni or sono i capitali libici dettero una mano decisiva alla Fiat di Gianni Agnelli), ma che può egualmente destare qualche inquietudine se assume un’eccessiva invadenza. Come è accaduto lo scorso settembre a proposito di Unicredit, il gigante bancario nel quale Gheddafi è riuscito ad avere, con due acquisti separati, il 7%, una quota molto consistente. Tanto consistente da suscitare in segreto l’allarme e il malumore degli azionisti tedeschi, rappresentati dal presidente Dieter Rampl (Unicredit nasce dalla fusione di Unicredito italiano con la Bayerische Hypo-und Vereinbank). E, niente affatto in segreto, di Umberto Bossi, che ha chiesto a gran voce l’intervento della Consob e delle fondazioni che controllano Unicredit. In conclusione la vicenda è costata la carica di amministratore delegato ad Alessandro Profumo, un manager considerato un mago della finanza, ritenuto responsabile della scalata libica.
E la matassa si ingarbuglia ancora più se passiamo al temi marittimi, vale a dire immigrazione clandestina e “guerra del pesce”. Due temi che la logica vorrebbe separati tra loro, ma che nei fatti sono strettamente legati, a causa di equivoci prevedibili ma pressoché inevitabili.
E’ noto e arcinoto, essendo stato detto e ripetuto, che una delle voci più importanti del trattato di Bengasi del 2008 riguarda il controllo che la marina di Gheddafi avrebbe effettuato lungo le sue coste per bloccare i famigerati barconi carichi di immigrati – che comunque hanno costituito al massimo il 20% dei clandestini – diretti verso i nostri lidi. A questo scopo l’Italia ha consegnato alla Libia sei motovedette, da usare, appunto, in questa azione di controllo e repressione. L’equivoco sta nel fatto, ben noto, che gli immigrati “irregolari” una volta giunti in Libia vengono rinchiusi in campi dove le guardie libiche li sottopongono a violenze di ogni genere, dalle percosse agli stupri. Le partenze dei barconi avvengono se e quando le autorità di Tripoli lo consentono, e non potrebbe essere altrimenti in un Paese sottoposto a una ferrea dittatura. Che una delle motovedette cedute dall’Italia sia stata usata non per la caccia ai clandestini ma per attaccare un peschereccio italiano, con una sparatoria che avrebbe potuto provocare un massacro, è “un grave incidente”, che magari potrebbe indurre a qualche riflessione (come quella del pescatore di Ma zara che dice “Gheddafi vuole il mare tutto suo”), ma “nulla cambia ai rapporti tra Italia e Libia”. Nessuno ne dubita.

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