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Gennaio-Marzo/2015 - Analisi
Ci risiamo con i conflitti
di Giancarla Codrignani

Da tempo mi è tornata in mente una proposta informale risalente a una trentina d'anni fa che poneva il problema della possibile unificazione del ministero degli Esteri con quello della Difesa. Forse non era un'ipotesi malvagia, se è vero che siamo di nuovo alle prese con conflitti dalle premesse ben note: nessuno infatti poteva illudersi che il problema dell'Islam fondamentalista fosse finito con la morte truculenta di Osama bin Laden o che al Qaeda sarebbe sparita senza conseguenze. Tanto meno che in Libia l'altrettanto truculenta uccisione di Gheddafi, un capo di Stato sicuramente dispotico ma che era stato Presidente dell'Ua (l'Unione africana corrispondente all'Unione europea), avrebbe portato la democrazia in Libia.
Non prevedere conseguenze di fatti noti significa che, nonostante Internet e nonostante le tante dichiarazioni pacifiste, ormai quasi ipocrite, si deve mettere in dubbio la crescita del Quoziente Intellettuale umano assicurata dalla rivista anglosassone Intelligence e citata da Repubblica il 3 marzo. Certo non lo dimostrano le cancellerie governative, prive di proposte per una qualche soluzione dei problemi del Mediterraneo. Eppure è dal 1947 che è presente su tutti i tavoli la questione israelo-palestinese, mentre nel 1995 fu deciso a Barcellona un programma di partenariato mediterraneo poi accantonato e da anni è stata rimossa la scarsa compatibilità politica dei Paesi di fede islamica che sono anche produttori di risorse energetiche. Nessuno si era accorto che già nel 1962 l'Algeria, la prima rivoluzione che aveva conseguito l'indipendenza, si era riconosciuta come una "Repubblica socialista islamica". Potremmo aggiungere anche il problema "immigrazione", che non è di per sé causa di conflittualità, ma conseguenza di scelte economiche e finanziarie incompatibili con uno sviluppo equamente condiviso.
Bisogna dunque ancora una volta tamponare situazioni rese preoccupanti da mancate azioni preventive. E intervenire con misure più o meno emergenziali che compensino le carenze sia diplomatiche (come trattare in questa fase con i ribelli delle fazioni libiche più o meno collegate all'Isis?), sia difensive di interessi mercantili senza per questo negare, possibilmente, quelli umanitari. Cosa intrigante, perché l'Italia ha una dipendenza energetica di oltre all'80%, di cui il 23% di petrolio e il 13 di gas arrivano dalla Libia. La sollecitazione rivolta all'Ue viene tacitamente interpretata dai Paesi europei non mediterranei nel senso di contenere gli arrivi di profughi tra i quali possono mimetizzarsi i terroristi. Le cose in realtà sono molto più serie perché il fondamentalismo da decenni è penetrato nei Paesi arabi e nell'Africa nera, dove il colonialismo aveva ignorato la storicità dei valori religiosi locali, dell'Islam in particolare, e anche dove avevano fallito aspettative di riscatto implicite nelle rivoluzioni socialiste. Di fatto l'Occidente (ma anche i Paesi emergenti a partire dalla Cina) ha continuato a privilegiare i propri interessi. D'altra parte i sempre più larghi strati delle società locali, ormai scolarizzate e tecnologizzate, politicamente restano minoranza, come ha dimostrato il grande abbaglio delle "rivoluzioni dei gelsomini": dove il welfare è sostituito dall'assistenzialismo dell'imam - che, con i mezzi della zakat (l'obbligo islamico della decima) provvede all'assistenza dei più poveri, - le masse votano i partiti fondamentalisti e le donne restano velate.
A questo punto la situazione è certo sfuggita di mano, anche se non ha senso farsi impressionare dalla qualità della gestione mediatica dell'Isis: come si vede, quelli che qualcuno chiama ancora i barbari sono altamente tecnologizzati e si prendono perfino gioco della nostra vulnerabilità psicologica. Nonostante l'attentato di Charlie Hebdo, o al museo del Bardo, le vere vittime sono gli abitanti delle zone occupate dal terrorismo, quasi sempre islamici, che subiscono direttamente le conseguenze della violenza: in particolare la persecuzione nei confronti delle donne che studiano appare intollerabile, e così la ferocia delle esecuzioni e la distruzione delle immagini e dei luoghi di culto non musulmani.
Si è parlato di una guerra mondiale frammentata, cosa che può essere già reale, se rimediamo gli errori e i ritardi accumulatisi con i metodi della Regione Lombardia che ha vietato la costruzione delle moschee, incentivando la vendetta di eventuali fanatici. Tocca ai "liberi", che lo possono, non cedere sui diritti: nemmeno l'11 settembre giustificava il Patriot Act, restrittivo della libertà degli americani. E tocca ai democratici gestire una politica ponderata: non è pensabile trattare tardivamente con Bashar al Assad dopo aver provocato la morte di 220.000 siriani, perché si era deciso che il despota - e Bashar è certamente un despota - andava eliminato, senza rendersi conto del rischio di sostenere la maggioranza sunnita intollerante del governo di un eretico alawita. Eppure in Siria il vescovo cattolico guidava senza problemi processioni pubbliche. L'esperienza dell'Iraq di Saddam Hussein doveva servire da lezione: un testimone insospettabile come don Giuseppe Dossetti scriveva sulla rivista cattolica "Il Regno" nell'ottobre del 1990 che "se Saddam Hussein fosse eliminato, l’occidente si troverà di fronte un islamismo radicale più difficile da combattere e ideologicamente più inestirpabile, sia nei Paesi musulmani che nell’Europa stessa. Vi saranno conseguenze evidentissime per la chiesa. C’è letteralmente pericolo dell’estinzione della Chiesa nei territori palestinesi e giordani e in quel pochissimo di Chiesa che poteva esserci negli altri territori di Arabia; una Chiesa, cioè, ridotta a vivere all’interno degli edifici di culto".
Oggi ci accorgiamo che i conflitti stanno superando il livello di guardia: dobbiamo difendere i diritti e perfino il Papa è d'accordo. Quando la difesa si fa armata i diritti sono automaticamente accantonati. Le donne sono le più danneggiate, perché anche nei Paesi oggi sprofondati nella violenza la loro presenza nelle scuole contribuiva direttamente alla crescita civile dei loro Paesi; oggi debbono entrare nelle lotte adeguandosi al modello maschile o subendone le persecuzioni, al massimo possono legarsi una cintura esplosiva e diventare martiri, anche se discriminate anche nel martirio.
Noi europei siamo pacifisti, ma un conto è non caricare la spesa bellica per far contente le aziende produttrici dei sistemi d'arma (i Paesi poveri sono pieni di armi vendute dall'Occidente); un altro avere una previsione strategica di che cosa può succedere nel mondo, soprattutto quello vicino alle proprie coste. Gli Usa si sono cautelati anzitempo e hanno istallato, per l'area mediterranea e mediorientale, a Niscemi - per ora inattivo - uno dei quattro Muos (Mobil User Objectiv System), nuova e totale copertura satellitare delle comunicazioni relative a tutti i movimenti di Forze navali, aeree o terrestri. Noi europei, per ora, non pensiamo a offensive senza l'Onu. Ma con quali prospettive? Task Force? Mare Nostrum? Priorità navali e/o aeree? Soprattutto, con quali competenze specifiche da mettere in campo? In Italia i comandi militari dicono che, per risparmiare, non sono stati rispettati gli addestramenti previsti e che gli investimenti da tempo riguardano prevalentemente l'ordinaria amministrazione (gli stipendi). I problemi attuali purtroppo richiedono ben altro: una cosa è andare a prelevare cittadini italiani in difficoltà su territorio straniero, un'altra soccorrere rifugiati in mare, un'altra ancora predisporre interventi mirati. Alla coalizione impegnata nella l'ex-Iugoslavia l'Italia partecipò prevalentemente con truppe di terra e relativi carri armati e cannoni; idem per l'Isaf in Afganistan, mentre in Iraq la missione "Antica Babilonia" aveva le caratteristiche del peace-keeping a carattere umanitario. L'attuale Ministra della Difesa ha pubblicato un "libro bianco" per riposizionare il significato della difesa e della sicurezza in contesti complessi per un Paese che non può più avere una politica solo nazionale e che già mantiene la propria presenza nelle altre missioni "umanitarie"; il Presidente della Commissione europea Junker ha ripreso il tema sempre rimosso dell'Esercito europeo su cui sarebbe bene aver risposto prima di esserci costretti (penso alla spesa di 28 Eserciti nazionali) e il Presidente della Repubblica ha presieduto il Consiglio supremo della difesa dove si sono pronunciate le ovvie nobili parole per affrontare con umana solidarietà l'esistente e i suoi rischi. D'altra parte l'iniziativa strategica tocca prioritariamente agli stessi islamici, che, superando contrapposizioni storiche non sopite difendono insieme - peshmerga curdi, sciiti e sunniti - l'Islam dagli usurpatori. Ma nessuno giura sulla pacificazione definitiva di confessioni rigide contro ogni blasfemia, tanto più che Erdogan mostra visibilmente la voglia di restaurare l'impero ottomano attorno alla Turchia.
I nostri concittadini mancano di conoscenza reale dei problemi: difficilmente a scuola hanno studiato, tra i problemi degli anni '20 (del secolo scorso), le conseguenze della caduta dell'impero ottomano e della sua disgregazione. Lo studio delle religioni è limitato al contesto cattolico e la laicità, non essendo ancora un valore educativo comune, non è riuscita a normare il principio costituzionale della libertà religiosa. L'informazione resta carente e i media fanno rumore scatenando paure, poi passano a dissolvenze ambigue, mentre gli eventi possono precipitare. Invece occorre cercare di capire le cose, perché viviamo in un mondo instabile, che sta cambiando pelle, e ci obbliga agli imprevisti.

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