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Gennaio/Febbraio/2005 - Editoriale
I terremoti dei poveri
di Paolo Andruccioli

L’anno che si è chiuso non è stato certamente tra i migliori. Il mondo ha vissuto con l’incubo continuo del terrorismo, della crisi economica, ma anche dei cataclismi “naturali”. A gennaio del 2004, trecentomila ettari di boschi sono andati in fumo intorno a Sidney e nel Nuovo Galles. A marzo il Danubio è straripato per lo scioglimento delle nevi in Austria, Germania e Slovacchia. Sempre a marzo c’era stato un fortissimo terremoto nella capitale di Taiwan. In estate anche l’Italia ha vissuto la paura e i danni per le inondazioni e gli straripamenti dei fiumi, mentre in luglio un grosso incendio distruggeva buona parte del quartiere più povero di Jakarta in Indonesia. In agosto anche in Cina l’acqua è stata protagonista con alluvioni e inondazioni: nella provincia centrale dell’Hubei le case sono state sommerse dal fiume Yangtze.
La tragedia dello tsunami nello Sri Lanka ha chiuso un lungo ciclo di brutte notizie ed ha commosso tutti. Non si erano mai viste scene così strazianti e purtroppo i bollettini dei morti, dei feriti e dei dispersi sono stati aggiornati in continuazione battendo ogni record. Dopo la commozione e lo sconcerto iniziali la tragedia ci ha costretto a interrogarci sulla nostra condizione, sui limiti delle tecnologie, sulla diffusione effettiva di una concezione scientifica e non fatalista della natura e dei rapporti tra gli uomini attraverso le loro organizzazioni sociali. La tragedia ci fa riflettere però anche sulle differenze economiche, su quel “gap” tra le parti più avanzate e più ricche e quelle più arretrate e povere. Non si tratta mai di una punizione divina. In ballo ci sono scelte economiche, rapporti di potere, storia e perfino nei rapporti ufficiali si cominciano a usare spesso le virgolette quando si parla di drammi “naturali”.

Una prima considerazione riguarda quindi proprio la capacità di prevenire le tragedie naturali e di salvare migliaia di vite umane. Le polemiche sulla gestione dell’emergenza in Asia sono scoppiate subito, a poche ore dalla grande inondazione che ha cancellato intere isole piene di villeggianti occidentali. Tecnici, giornalisti, opinionisti vari hanno spiegato che dal momento in cui si è capito che sarebbe arrivata la grande onda che ha finito la sua corsa sulle coste africane è passato molto tempo. Eppure non si è fatto quasi nulla e i morti si sono così moltiplicati e il numero è cresciuto in modo esponenziale. Molti ben pensanti ci hanno spiegato che negli Usa una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere e che i Paesi Bassi si chiamano così proprio perché convinvono con la minaccia del mare da sempre. E’ tutto vero. E’ un ragionamento che apparentemente non fa una piega, ma che ha un difetto sostanziale: si basa sul presupposto di un libero arbitrio che nella realtà quotidiana non esiste. Davvero qualcuno può pensare che gli aiuti e il sistema di protezione civile non sono scattati perché in Asia non c’è la cultura adatta? O, al contrario, non sarebbe utile riflettere seriamente sulle disparità economiche, sulle differenze enormi in termini di risorse e quindi anche sulle differenze culturali che sono una diretta conseguenza e insieme una causa? Il problema principale da affrontare, da questo punto di vista, non è solo una corretta gestione della solidarietà internazionale per evitare il vampirismo tipico del dopo terremoto. L’aiuto più grande che possiamo dare ai paesi colpiti è la questione del debito. Nell’assise internazionale dei paesi più industrializzati che c’è stata subito dopo lo tsunami e nei primi giorni dell’anno nuovo, si è per esempio distinta la Gran Bretagna. Il paese che nel mondo viene sempre più spesso assimilato al cugino americano in quanto a volontà di guerra e di potenza, in questo caso si è distinto da tutti gli altri, anche da altri Stati europei che pure in genere sono i primi a correre la corsa della solidarietà. Mentre infatti la maggioranza dei governi propone una moratoria del debito che i paesi più poveri devono restituire a quelli ricchi, la Gran Bretagna di Tony Blair e di Gordon Brown ha proposto l’annullamento del debito, come unico modo serio per affrontare l’epoca della ricostruzione e costruire le condizioni affinché tragedie di questa portata non si ripetano in futuro. La studiosa Vandana Shiva lo aveva scritto subito: l’unico modo per dare speranza e futuro è l’azzeramento del debito.

A questo punto, molti di voi staranno pensando: ma cosa c’entrano le questioni economiche con una tragedia umana come un maremoto e un terremoto di questa portata? Non sarà magari questo un facile pretesto per dire che ci sono ancora troppe differenze nel mondo e che la globalizzazione procede solo in un verso? Non sarà per caso un ragionamento-brutta copia delle proteste no-global contro il debito dei paesi poveri? Tra l’altro, ironia della cronaca, l’ultima manifestazione degli attivisti a favore della cancellazione del debito era stata organizzata proprio lo scorso settembre a Washington. Ebbene per rispondere a queste domande voglio solo riprendere uno dei fatti di cronaca di cui ho parlato all’inizio di questo editoriale; il terremoto di Taipei, avvenuto domenica 31 marzo del 2004. Il sisma è stato fortissimo (6,8 della scala Richter), i danni sono stati ingenti, soprattutto nella capitale di Taiwan. Vi ricordate però quanti sono stati i morti? Solo cinque, mentre i feriti sono stati circa 200. Un caso fortunato? Una discriminazione del destino? No, niente di tutto ciò. La risposta è più semplice: case costruire con i sistemi antisismici. Chi ha voluto spendere prima ha risparmiato centinaia, migliaia di vite umane. Così succede anche in Giappone, e in altri paesi sotto il livello del mare dove ci sono sistemi efficienti di allarme e muri-diga che salgono al momento opportuno per respingere le onde anomale e gli effetti dei maremoti. Una tragedia come quella dello tsunami si poteva evitare solo con investimenti economici adeguati. E’ questa, forse la riflessione più urgente da fare: superare la logica predatoria del guadagna e scappa, che catatterizza spesso le attività economiche che non guardano al futuro. E poi, sicuramente, c’è anche la questione culturale. Una bambina inglese in vacanza nello Sri Lanka ha salvato decine di vite perché quando il mare si è ritirato ha dato l’allarme ai genitori che l’hanno presa sul serio. La bambina aveva studiato lo tsunami a scuola, prima delle vacanze di Natale.

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