Tragici fatti di cronaca e tensioni sociali sotterranee ci hanno messo di fronte, quasi all’improvviso, a un nuovo problema, quello della gestione della sicurezza pubblica in una società multietnica. Dopo l’uccisione del giovane barista di Besano, in provincia di Varese, si sono scatenate, infatti, le polemiche più violente sulla necessità di restringere i cordoni, innalzare muri di protezione dallo straniero, fare pulizia dei “criminali” albanesi. In piazza, a Besano, insieme agli amici di Claudio Maggiorin e agli ultras della locale squadra di calcio, sono scese anche autorità e rappresentanti delle Istituzioni. Perfino un Ministro della Repubblica ha voluto partecipare alle manifestazioni di protesta e la madre del giovane ucciso ha chiesto giustizia, ma ha anche inveito con tutta la rabbia possibile contro uno Stato che si mostrerebbe latitante. Finiremo per farci giustizia da soli, ha dichiarato la signora Elisa.
Non dobbiamo commettere l’errore di sottovalutare la portata di questo tragico fatto. Non dobbiamo cioè relegarlo alle pagine di cronaca dei quotidiani e ai notiziari sempre più truculenti dei telegiornali, delle tv pubbliche e private. Bisogna stare molto attenti, perché in Italia rischiano di manifestarsi fenomeni che non riusciamo a capire e che avranno sviluppi e conseguenze imprevedibili. Speriamo di sbagliarci, ma fatti del genere non possono non essere collegati ad altri episodi di intolleranza e di violenza. E’ come se la nostra società fosse attraversata di nuovo da un senso di insicurezza generalizzato che spesso sfocia in vera e propria paura e rabbia incontrollata. In piazza a Besano sono scesi soprattutto gli amici ultras di Maggiorin. Hanno gridato slogan da stadio per chiedere vendetta. Hanno detto che bisogna farla finita con gli albanesi, con tutti gli albanesi che vivono nel nostro Paese. Si sono sentite frasi che abbiamo anche potuto leggere sugli striscioni che si srotolano allo stadio. Una manifestazione in risposta a un omicidio che non ha alcuna spiegazione, come non hanno spiegazioni razionali le aggressioni in discoteca o quelle contro persone handicappate. Abbiamo presto dimenticato e forse rimosso l’altro caso tragico del giovane morto per difendere l’amico handicappato.
Al senso di insicurezza sociale dovuto soprattutto alla difficile congiuntura economica che ha reso molto più fragili molte famiglie, si unisce dunque un senso di vera e propria insicurezza psicologica, soprattutto nei quartieri più periferici e nelle zone più degradate del Paese. Ma anche qui, stiamo attenti alle facili semplificazioni. Questo senso di insicurezza che sfocia spesso in paura, si manifesta nelle zone più povere, ma anche nelle zone più ricche del paese. Spesso nelle cronache troviamo piuttosto il riscontro di fenomeni che si manifestano in zone ricche, come nel caso delle ville prese d’assalto dai ladri nelle zone “bene” del nord Italia. Così come episodi di violenza gratuita e spesso organizzata si manifestano in piccoli paesi come nelle grandi metropoli. Spesso il filo che lega tutto ciò è proprio quello della nuova convivenza con gli immigrati. Viviamo in una società profondamente cambiata dove ormai siamo alla seconda generazione (o forse alla terza) di immigrati. Siamo diventati un Paese che pur non avendo avuto una storia coloniale paragonabile a quelle della Francia e della Gran Bretagna, è diventato ormai una destinazione obbligata per milioni di persone che arrivano dal Sud e dall’Est del mondo.
E’ un problema che merita la massima attenzione e che obbliga la classe dirigente a essere consapevole del proprio ruolo. In questo senso crediamo sia necessario rilanciare una riflessione molto seria sul concetto di sicurezza e di ordine pubblico. Da una parte bisogna infatti capire i fenomeni che si manifestano, dall’altra bisogna scegliere la filosofia della gestione dell’ordine e della sicurezza. Per quanto ci riguarda, per quanto riguarda cioè questa rivista che ha le sue radici nella Riforma della Polizia del 1981, noi pensiamo sia più che mai necessario realizzare concretamente il principio della “sicurezza positiva” che coniuga i due diritti fondamentali di tutti i cittadini (anzi degli uomini): il diritto alla sicurezza e il diritto alla libertà. Proprio su questi temi abbiamo organizzato un convegno a Roma di cui diamo notizia in questo numero e di cui pubblicheremo alcuni degli interventi nel prossimo.
Di fronte alla violenza non ci possono essere scorciatoie e non possiamo abbandonarci agli istinti primordiali che rischiano di cancellare secoli di cultura giuridica. La legge del taglione non ha mai aiutato nessuna società a vivere più sicura e in pace. Perciò stiamo attenti agli slogan e stiamo attenti a lasciare briglia sciolta a chi ha interesse a rendere il clima sempre più violento e velenoso. Tra parentesi: la cronaca comincia di nuovo a registrare episodi di aggressione di ragazzi di centri sociali e perfino a sezioni di partiti e sindacati, come da un ingiallito copione degli anni Settanta. Se c’è qualcuno che ha interesse a versare benzina sul fuoco, farebbe bene a ripensarci. La sicurezza positiva è un’altra cosa. Implica il coinvolgimento dei cittadini e degli amministratori. Pretende che a fianco delle Forze dell’Ordine ci sia una società che sappia organizzarsi. Tutt’altra roba dalle squadre di vendicatori che stiamo vedendo o dalle ronde private proposte da qualche gruppo politico in sostituzione della Polizia e dei Carabinieri. La sicurezza positiva, come ci spiegano i più attenti studiosi della materia, implica invece un nuovo tipo di coordinamento tra tutte le Forze di Polizia e un nuovo tipo di organizzazione sul territorio. Non si tratta tanto di “devolvere” funzioni prima appannaggio dal Centro alla Periferia. Si tratta piuttosto di mettere in contatto gli amministratori con chi è responsabile della sicurezza. Si tratta di coinvolgere i cittadini in senso attivo e di capovolgere la gestione dell’ordine pubblico. In una società multietnica il problema centrale è la convivenza di culture e di comportamenti. C’è bisogno dell’esatto contrario della repressione poliziesca vecchia maniera e di uno Stato gerarchico, accentrato e fortificato in una cittadella nella casbah. Sono discorsi che riguardano tutti, a partire dai nostri rappresentanti al Viminale. E’ stata proprio la legge 121 ad insegnarcelo: il ministero dell’Interno non è un Ministero di Polizia, ma un Ministero di garanzia.
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