L’emergenza cocaina è un problema serio. Al di là dei gossip, delle strizzate d’occhio, dei drammatici casi che toccano l’ambiente elitario dei ricchi e potenti (e dei quali naturalmente si parla e si scrive a dismisura con un misto di pietà e di malizia). Il problema è serio perché la coca, la “polvere”, considerata fino a qualche tempo fa una droga per Vip, un’eredità del decadentismo spicciolo degli anni ’20 (un classico letterario rimane, nel suo genere, “Cocaina” di Pitigrilli), sta invadendo il mercato degli stupefacenti, con un vertiginoso aumento dell’offerta, e un conseguente calo dei prezzi al consumo. Sembrerebbe, quindi, che la “polvere” stia superando in diffusione l’eroina, anche se in realtà i consumatori spesso preferiscono mescolare le due droghe, aggiungendovi a piacere psicofarmaci e alcol, con effetti devastanti.
I dati rilevati dall’Onu (purtroppo precisi, anche se le Nazioni Unite dispongono di limitatissimi strumenti di intervento) parlano di 800 tonnellate di cocaina commercializzate ogni anno. Per quanto riguarda l’Italia, i sequestri di cocaina nei primi nove mesi del 2005 sono aumentati quasi del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E, sottolinea il generale dei CC Carlo Gualdi, che dirige il servizio antidroga del Viminale, “l’entità dei sequestri corrisponde all’andamento dei consumi, e quindi dimostra quanto elevata sia la richiesta di cocaina”. Una richiesta che si espande, perché, appunto, i prezzi sono relativamente accessibili. Una dose (mezzo grammo) costa quaranta euro, ma può scendere anche alla metà, magari per invogliare i neofiti, non di rado giovanissimi. Già, perché la coca sta diventando una droga con diffusione che attraversa le generazioni, e, in una certa misura, le categorie sociali. E anche la schiera degli spacciatori si diversifica e si allarga: resta sempre il piccolo distributore di zona, che ha aggiunto la “polvere” al suo usuale repertorio di eroina, ecstasy e hashish (questo ormai in calo), ma la merce può essere offerta anche sul posto di lavoro, in qualche esercizio commerciale, in un circolo sportivo, e in altri luoghi apparentemente insospettabili. Da notare che questo spaccio viene spesso effettuato, e accettato, come un’attività pressoché innocua, perché, si dice, in fin dei conti la cocaina è uno stimolante, che fra l’altro non crea dipendenza.
Nulla di più falso.
In una recente inchiesta su Panorama, Giancarlo Dotto raccoglie a questo proposito l’analisi del professor Francesco Le Foche, immunologo, responsabile del day hospital al Policlinico Umberto I di Roma : “Da cinque anni registriamo una crescita importante del fenomeno. Soggetti che presentano danni gravissimi, infezioni dovute al deficit del sistema immunitario, l’infiammazione cronica della mucosa, fino alla necrosi e alla distruzione del setto nasale, delle cartilagini e delle ossa”. E il professor Le Foche fa un’interessante diagnosi del consumatore di “polvere”: “Se ne vedono sempre di più di cocainomani in giro, tra la gente comune, nei tavoli dei ristoranti, per la strada. Si riconoscono facilmente: l’ipercinesia, l’occhio spalancato, sempre acceso, i battiti delle ciglia rarefatti. Il cocainomane cammina sempre al centro del marciapiede. Sembra solo anche quando è in compagnia. Non percepisce il pericolo, si sente padrone del mondo. Un ego farmacologico, che ingigantisce se stesso e azzera il prossimo. Lo riconosci anche quando prende un caffè. Afferra la tazzina, beve d’un fiato e la rimette giù esattamente al centro del piattino, il tutto in un secondo netto. Si chiama tachipsichismo, risposta immediata e netta a stimoli che arrivano dall’esterno. Il pensiero e la parola viaggiano in totale sincronia”.
Ecco, la verità è che la cocaina a volte uccide, e comunque, sempre, corrode l’organismo di chi ne fa uso e ne distrugge la personalità. “Non parlavo più con nessuno, tiravo cocaina. Mi sentivo un duro e invece ero un pupazzo”, racconta Rosario Fiorello della sua, fortunatamente breve, esperienza della “polvere”. Un pupazzo: definizione sintetica, ed efficace.
Dietro a tutto questo, stanno le organizzazioni della criminalità organizzata che, com’è noto, dal traffico traggono lauti guadagni. Una storia non nuova. Di nuovo, semmai, si registra l’inserimento nella rete dei trafficanti di personaggi del jet set, quali i figli di una contessa milanese molto conosciuta come animatrice di eventi mondani, e ospite frequente di talk show televisivi, arrestati – uno a Ibiza e l’altro nel capoluogo lombardo – con l’accusa di importare dal Sudamerica ingenti quantitativi di cocaina, oltre che pacchi di pastiglie di ecstasy dall’Olanda. Il blitz si è concluso nella prima metà di ottobre, dopo indagini partite tre anni fa da Trento, e poi condotte parallelamente in Argentina, Spagna, Francia, e Lombardia. In attesa dello svolgimento dell’inchiesta giudiziaria, si avrebbe l’impressione che si tratti di una sorta di piattaforma di smistamento gestita da rampolli della “buona società”, in grado di garantire uno smercio cospicuo e costante in determinati ambienti di alto livello: per il momento si contano sessanta arresti (in Argentina, in Spagna, in Francia, e in Italia a Milano, Genova e Bari), e il sequestro di una tonnellata e mezzo di cocaina, e di due milioni e mezzo di euro in contanti.
Casualmente, le cronache del blitz hanno coinciso con quelle del ricovero per overdose di cocaina all’ospedale Mauriziano di Torino di Lapo Elkann, 29 anni, nipote di casa Agnelli, dirigente Fiat, responsabile della promozione del marchio dell’azienda. Sarebbe riduttivo dire che, sui giornali e in televisione, se ne è parlato troppo, e nello stesso tempo ci sembrerebbe sbagliato condannare tout court l’interesse smodato dei media per un episodio come questo. Gli strumenti dell’informazione non si limitano a trasmettere notizie sulla società in cui viviamo, ma ne sono anche lo specchio. Se in un salotto televisivo un distinto signore (che sia conte interessa poco), intimo della famiglia Agnelli, dichiara, e conferma, che la grande maggioranza delle persone che conosce e frequenta sniffa la “polvere”, e “ha bisogno della sua dose, della dose delle sette di sera. E anche i loro figli, purtroppo”, è inutile prendersela con il conduttore della trasmissione, che può anche non starci troppo simpatico. Certo, è una “brutta” informazione, ma, dovremmo chiederci, il mondo che essa descrive come si presenta? E forse dovremmo chiederci anche quanti “pupazzi” circolano a testa alta, sentendosi invincibili, e dirigono, decidono, sentenziano, fanno e disfanno. Probabilmente è meglio non saperlo. Però, quando si tira in campo l’ipocrisia, sicuramente fastidiosa, di chi sale sul pulpito del moralista, non si dovrebbe dimenticare quella di chi invita a “calare il sipario” e ad astenersi da “curiosità morbose”. Non ci si può mettere sotto le luci della ribalta, e godere dei vantaggi di una posizione oggettivamente privilegiata, e pretendere riserbo quando si produce uno sgradevole incidente. Perché altrimenti si dovrebbe risalire alle cause e alle responsabilità (diciamo agli interessi) di chi ha modellato un’etica fittizia fatta di apparenza, di aggraziate menzogne, e di chiacchiere.
Paolo Pozzesi
|