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Gennaio/2006 - Editoriale
A proposito di un codice etico e di eccesso di velocità
di Paolo Pozzesi

All’inizio dell’anno nuovo sarebbero d’obbligo gli auguri, rituale che nei tempi antichi equivaleva a predire, o a indovinare, il futuro. Gli spunti non mancano, temi sui quali imbastire delle riflessioni avveniristiche che poi potranno anche essere smentite dalla realtà, tanto nessuno ricorderà né di averle scritte né di averle lette. Ad esempio: la velocità. L’essere umano è progredito (ammesso che lo abbia veramente fatto) perché si è spostato sempre più velocemente, da quando andava a piedi a quando ha inventato la ruota, e il cavallo. E, in seguito, il cavallo-vapore. Bastava pensarci, il resto è venuto da solo, o quasi. Ma se non vi sono limiti al progresso, non devono esservene nemmeno alla velocità, e ne consegue che far viaggiare uomini e merci a 300 chilometri orari, invece che a soli 180, da Torino a Lione, è per forza di logica un’ottima cosa. E chi si oppone è un nemico del progresso e del mercato.
Resta il dettaglio dei costi, della scarsa attendibilità delle previsioni di sviluppo per quella linea ferroviaria, e della necessità di perforare con un lungo tunnel una montagna, provocando la dispersione (beninteso “controllata”) di polveri di amianto, e forse anche di uranio. Aggiungendo la decisa ostilità al progetto degli abitanti di una valle che vedono minacciati il loro territorio e la loro salute, e comprensibilmente non hanno una fiducia illimitata nei “controlli”. Allora, la velocità non sarebbe di per sé un bene assoluto?

E andiamo avanti, pur rendendoci conto di imitare il famoso dialogo fra Massimo Troisi e Roberto Benigni con Leonardo da Vinci. Il telefono: veloce come la parola. Chi onestamente potrebbe negare che il telefono sia uno dei capisaldi del progresso? Senza telefono saremmo tutti perduti, tagliati fuori, muti e sordi, dal mondo, tanto che ormai abbiamo bisogno di quell’appendice sonora e petulante che è il cellulare. Ma siamo ancora lì: anche il telefono ha i suoi pro e contro. Se lo usi per parlare con qualcuno (e non esiste altro modo di servirsi dello strumento) non puoi mai essere sicuro di che cosa dirà l’altro. Peggio se è l’altro a chiamarti, e ti dice delle cose che sarebbe opportuno tu non ascoltassi. Soprattutto se sei il dirigente di un partito politico, e il tuo interlocutore è il presidente di un istituto finanziario che sta mettendo in atto un’Opa. Un’Opa! Solo a sentirla nominare, chiunque abbia una responsabilità politica dovrebbe gridare “vade retro”, e turarsi le orecchie. Farlo al telefono non è agevole, ma può sempre provarci. Intendiamoci, non è che le Opa (Offerte pubbliche di acquisto) in quanto tali siano per loro natura diaboliche. O almeno non dovrebbe essere così, dato che se ne fanno abbastanza spesso, e le cronache finanziarie ne riportano le vicende e gli intrecci con dovizia di particolari. Grosso modo si tratta di un’operazione per acquisire il controllo di un’azienda, o di una banca. Preferibilmente di una banca. Nelle banche arriva il denaro, ed è per questo che furono inventate, dai Templari, e poi da Milanesi e Fiorentini. E il denaro, si sa, è la linfa vitale di qualsiasi sistema produttivo. Tutto sta nel farlo circolare, anzi nel farlo correre (ecco, la velocità!). Certo, può accadere che lo si faccia correre nella direzione sbagliata (diciamo su un binario morto), e la corsa si conclude in una solenne fregatura per chi si è lasciato convincere a parteciparvi.
Tornando alle Opa, si deve rilevare uno strano fenomeno: all’inizio, quando sono annunciate, appaiono tutte legittime, ma cammin facendo assumono sovente connotati ambigui. Si suppone che gli organi di controllo, in primis la Banca d’Italia, verifichino la liceità, e la fattibilità di queste operazioni, ma a tale proposito vi sarebbero state delle “cadute di stile”
Comunque, le Opa, generalmente sono accompagnate da scontri, palesi e sotterranei, fra gruppi rivali - come cacciatori che ambiscono alla medesima preda, e il paragone non ci sembra offensivo -, con colpi alti e bassi, generando nell’opinione pubblica la diffusa convinzione che chi si mette in quelle imprese deve essere, come minimo, dotato di una buona dose di spregiudicatezza. E in effetti periodicamente ne sono protagonisti dei grandi manager che sembrano brillare quali astri nel cielo, per andare via via spegnendosi come mozziconi di candela, concludendo la loro prestigiosa carriera in un’aula di Tribunale, e a volte persino in galera. D’accordo, sono eccezioni, ma sono eccezioni che dovrebbero far riflettere, e tenere sempre viva una sana diffidenza.
Per questo semplice motivo, chi fa politica dovrebbe evitare qualsiasi contatto con chi opera nel mondo della finanza. Anche se questo contatto consiste in una semplice conversazione telefonica che, registrata, viene considerata dagli inquirenti “penalmente irrilevante”, e neppure depositata. Perché ci sarà sempre qualcuno che sfilerà quella registrazione per offrirla (o venderla?) a chi è interessato a montare una campagna politica. Un campo in cui se mancano le prove sono sufficienti le insinuazioni. Non è il caso di stupirsene. E’ giusto parlare,come ha fatto il presidente emerito Francesco Cossiga, di gravi violazioni da parte di “spezzoni” di organi istituzionali (Cossiga ha puntato esplicitamente il dito su elementi della GdF) che si sono resi complici di questa manovra. Ma francamente sarebbe dare prova di eccessiva ingenuità attendersi che la denuncia di un atto illegale dia i risultati dovuti. Questo può accadere negli Stati Uniti, dove lo spionaggio del Watergate ai danni dei dirigenti del Partito Democratico, fece affondare la presidenza di Richard Nixon. Ma qui siamo in Italia, stupendo Paese e però anche terra di veleni dai Borgia ai nostri giorni.

Piuttosto sembra necessario, e urgente, fare chiarezza. Anzitutto respingendo - come è stato fatto - le offerte subdole, e interessate, di una sorta di fronte comune della politica contro la magistratura. I magistrati indagano, e devono indagare, su tutto e su tutti. Hanno agito così ai tempi di Tangentopoli, malgrado i potenti ostacoli che hanno incontrato sul loro cammino, e grazie a loro vi è stato un risanamento, sia pure parziale, della vita pubblica. Affermare che la Bancopoli di oggi sia l’equivalente della Tangentopoli di ieri significa cercare un’assoluzione postuma alle colpe di un passato indifendibile.
Questa volta le ipotesi di reato non riguardano delle tangenti pagate da privati a uomini politici per ottenere lucrosi favori, ma il comportamento di alcuni manager della finanza in operazioni condotte in varie direzioni, di volta in volta tra loro sodali e avversari. Su questo sta indagando e continuerà ad indagare la magistratura, che rappresenta una sicura garanzia di indipendenza nei confronti di ogni potere: come dimostrano le vicende passate e presenti. Sul piano politico il discorso è diverso. Non ci si deve accontentare di non essere colpevoli di qualcosa, di essere onesti: è necessario non commettere errori di valutazione. E non si tratta di prudenze tattiche. Chi fa politica, e vuole farlo in modo trasparente, nell’interesse del Paese, deve seguire un codice di comportamento particolarmente severo, più severo del Codice penale. “Proporci nuove regole e nuovi confini”, ha detto Romano Prodi. Insomma, evitare il “tifo”, sia pure innocente, per questo o per quel condottiero del denaro. E a certe chiamate telefoniche rispondere: ”Non ci sono per nessuno”.

direttore@poliziaedemocrazia.it

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