Si va alle urne. Con una legge elettorale cambiata all’ultimo momento, passando dal maggioritario a un piuttosto confuso proporzionale, una legge voluta da una maggioranza governativa che spera così di rendere meno evidente la temuta sconfitta. Espediente che il Presidente emerito Francesco Cossiga definisce rudemente “una legge elettorale-pasticcio fatta per rompere le scatole a Prodi”.
Comunque, si va alle urne, con alcune speranze (ognuno ha le sue, ma quelle essenziali dovrebbero essere largamente condivise), e non poche preoccupazioni (queste comuni a tutti). Sarebbe inutile nasconderselo, l’Italia non è in una situazione invidiabile, e nemmeno accettabile, sia dal punto di vista economico, sia da quello del prestigio. Qualcuno dirà che magari del prestigio si può anche fare a meno, ma non si tratta solo di orgoglio nazionale: il prestigio di un Paese sta anzitutto nel farsi prendere sul serio, e questo ha un peso e un valore che si riflettono anche in moneta sonante.
Un Paese nel quale il numero dei poveri aumenta, mentre si restringono le prospettive per chi cerca un lavoro, e persino per chi ne ha uno, non ha vitalità all’interno, e non può avere “appeal” all’esterno. Certo, non sarà ancora la bancarotta, ma è una fase pericolosa dalla quale occorre uscire. E senza attendere oltre.
Il fatto è che sono state vanificate alcune occasioni, che pure erano state preparate con fatica, e qualche sacrificio. La prima è stata l’appartenenza a un’Unione Europea che ambiva di affermarsi come protagonista sulla scena mondiale, a condizione, appunto, di essere una vera unione. Purtroppo, alla prima verifica seria, proprio il governo di una nazione che poteva vantarsi di essere tra i “soci fondatori” dell’idea europeista (la prima, lungimirante e volenterosa Europa dei Sei), ha ritenuto opportuno scegliere un altro “asse privilegiato”, aderendo a occhi chiusi (si spera, altrimenti sarebbe più grave) alla “guerra preventiva” in Iraq: un conflitto non solo pienamente illegale sul piano del diritto internazionale, ma “sbagliato, nel momento sbagliato, nel posto sbagliato”, secondo un’illuminante definizione americana. Infatti, i principali beneficiari di questa guerra risultano il terrorismo islamico stile al Qaeda, rilanciato alla grande nel caos iracheno, e l’Iran degli ayatollah, che vede il suo storico confinante nemico traballante fra il governo delle milizie armate (in divisa e no), benevolmente battezzato come “democratico”, e i rischi di guerra civile.
In Europa, l’adesione italiana a una strategia “preventiva” - che, non dimentichiamolo, alcuni connazionali hanno pagato con la vita - ha provocato una frattura con Francia e Germania, e altri partner favorevoli a un’azione politica e non militare, coordinata e concordemente sostenuta. E, dato che a suo tempo non sapevamo perché andavamo in Iraq, ora sembra che non sappiamo bene come andar via salvando in qualche modo la faccia: non dei nostri militari, che si sono comportati, con intelligenza e spirito di sacrificio, come meglio non avrebbero potuto data la situazione in cui sono stati messi (una “missione di pace” agli ordini di chi stava, e sta ancora, facendo la guerra), ma la faccia di chi li ha mandati lì. Insomma, un errore disastroso, che si cerca di mascherare, o addirittura dimenticare, mentre invece pesa molto, e rischia di pesare ancora di più se non si cambia strada.
Naturalmente, nessuno discute l’amicizia con l’America, ma si tratta, appunto, di essere amici, non dei dipendenti che si accodano sistematicamente, senza discutere. Il mondo ha bisogno di un’America forte, che sappia usare la sua forza con saggezza, che abbia l’intelligenza di prevedere gli eventi. E l’America ha bisogno di amici che sappiano darle dei consigli, e delle idee. L’Europa può e deve avere questo ruolo. In un rapporto corretto, i veri amici sanno anche dire “no”, quando si accorgono che l’altro sta sbagliando. Del resto, abbiamo avuto degli uomini di governo che, da amici e alleati, non hanno esitato a parlare chiaro agli “inquilini della Casa Bianca”: da De Gasperi a Moro, da Andreotti a Craxi. Senza che venisse mai meno il reciproco rispetto. Eppure, era il tempo della Guerra Fredda, dei due blocchi contrapposti, della minaccia incombente di un conflitto nucleare. Chiarezza e serietà: ci sembra che siano questi i presupposti per una politica estera che non sia solo chiacchiere e avanspettacolo.
Serietà, dunque, nel mondo, in Europa, e in Italia. Stravolgere una Costituzione che è in assoluto una delle migliori, nata dallo sforzo congiunto di tutte le parti politiche, sociali, culturali, solo per soddisfare utopie propagandistiche prive di logica, è qualcosa che non si è mai visto. E non ha senso attaccare sistematicamente la magistratura - un’istituzione che è una garanzia per tutti i cittadini - per difendere qualche imputato “eccellente” - proclamando che i giudici e i pm sono tutti bolscevichi. Quindici anni dopo che le ultime tracce di bolscevismo sono sparite! E’ davvero sconfortante dover ascoltare simili facezie come fossero verità acclarate, tanto più che queste campagne pilotate dall’alto non hanno sicuramente giovato alla stabilità, e alla dignità, del Paese.
Ora, beninteso, bisogna guardare avanti. E chi governerà per i prossimi cinque anni l’Italia dovrà occuparsi dei veri problemi: la crescita, ormai ridotta a zero (quella economica, certo, ma non solo); l’occupazione, vista come garanzia per ogni cittadino e per l’insieme del Paese; la sicurezza, un bene che comporta la difesa contro ogni minaccia terrorista, la protezione dalla criminalità diffusa, ma anche una lotta autenticamente sentita ed efficace al potere delle mafie; la scuola e la ricerca, il grande complesso della conoscenza e del sapere, della cultura intesa come primato della scienza e delle arti. Ecco, a nostro parere, alcuni punti condivisibili per coniugare la libertà con la giustizia e con l’uguaglianza, per rendere concreto, quotidiano, il concetto di democrazia. Aggiungendo la regola di un rapporto paritario tra chi governa e i cittadini. Per cominciare, estirpando alle radici la tentazione di censurare, manipolare, controllare i mezzi di informazione. “Ci sono ministri che si lamentano che la televisione pubblica non dà loro spazio o che li tratta male. E io gli rispondo sempre: abbiamo vinto proprio a questo scopo. E’ essenziale. Normalmente un uomo politico, quanto più ha fiducia nella gente, tanto più ha la possibilità di vincere. Quando un politico vuole manipolare l’informazione è perché non si fida della gente e pertanto teme che l’informazione fluisca in modo veritiero. Invece la salute della democrazia è che il dibattito sia aperto, chiaro, senza restrizioni, sebbene oggi sia molto difficile manipolare totalmente, perché abbiamo un’enorme varietà di accessi all’informazione. Per questo il futuro è della democrazia”: lo ha detto recentemente, in un’intervista-dialogo con Paolo Flores d’Arcais, pubblicata da “Micromega”, José Luis Rodriguez Zapatero, Presidente del Consiglio spagnolo. Bene, per qualcuno sarà anche lui un “bolscevico”, ma non ci sembra che abbia torto.
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