Il ciclone Kyrill del gennaio scorso più che un segnale è stato la conferma di un allarme tante volte ripetuto. Il nord Europa devastato da venti che infuriavano a 200 chilometri orari, decine di morti, città e zone rurali devastate. Con l’aggiunta di una vecchia nave, che si chiama “Napoli” ma è inglese, arenata per la bufera sulla costa del Devon, sulla quale ha riversato per chilometri petrolio e veleni chimici.
Un effetto delle mutazioni climatiche, le stesse, affermano gli esperti, che hanno provocato le ondate di gelo in California e nel Texas, mentre a Washington fiorivano i tulipani, e nella nostra penisola l’inverno assumeva, fino a gennaio inoltrato, toni primaverili. Tutti pessimi sintomi, sia il ciclone anomalo, sia il troppo freddo, sia il troppo caldo. E le cause le conosciamo: colpa delle mutazioni climatiche, cioè colpa nostra.
Nostra di tutti, nessuno escluso; governanti, imprenditori, consumatori, nei Paesi industrializzati e in quelli che ambiscono a diventarlo. Evidentemente è scritto nel Dna dell’essere umano che l’interesse per l’ambiente naturale (di cui il clima è parte dominante) si limita al giardino della propria abitazione. Non è una storia nuova, ma ora la situazione sembra essere giunta alla vigilia di un passaggio irreversibile.”Dopo tanto tempo, proprio ora, e proprio io?”, si chiederà qualcuno. Ebbene, prima o poi arriva il momento in cui suona l’ultima campana. E, ricordiamolo, “non chiedere per chi suona la campana…”.
Quindici anni davanti a noi per correre ai ripari: è il limite fissato dagli esperti. E su questo limite si è basata la Commissione dell’Unione Europea approvando il maxi-pacchetto sull’energia che prevede il taglio del 20% delle emissioni di gas serra entro il 2020. A marzo questa “slow carbon economy”, che ha anche il fine di ridurre la dipendenza europea dalle importazioni di gas e di petrolio, dovrà essere accettata dai capi di governo dei Paesi dell’Ue, e sono prevedibili discussioni e resistenze. Ma il problema resta, urgente, ineludibile.
Del resto, il piano prevede di negoziare, a partire dal 2012 – scadenza del protocollo di Kyoto - , con tutti i Paesi industrializzati, un taglio del 30%, per raggiungere nel 2050, includendo i Paesi in via di sviluppo, il traguardo del 50%. E la proposta originaria del commissario per l’Ambiente, il greco Stavros Dimas, chiedeva di impegnarsi subito per una riduzione del 30%, ipotesi poi abbandonata per il timore di contraccolpi sullo sviluppo industriale europeo.
Ma anche così, che cosa si dovrà fare? Il programma al quale lavorerà la commissione consiste in un “energy mix”, vale a dire un misto di energia rinnovabile e di uso di biocarburanti. E a tale proposito, a Bruxelles si è ritenuto opportuno richiamare all’ordine il nostro Paese:”Nonostante un forte sviluppo nell’eolico, biogas e biodiesel, l’Italia è ancora molto lontana dagli obiettivi nazionali ed europei”. L’appunto è fermo e chiaro, “molto lontana”. E cade mentre ci affanniamo a rientrare nei parametri finanziari di Maastricht, ristabilendo quel rigoroso controllo nei conti pubblici che finora è stato troppo carente. Quindi, non solo nella spesa siamo stati dissennati, ma anche nel consumo di energia “sporca”, senza preoccuparci di mettere a punto le tecnologie necessarie per utilizzare adeguatamente le famose “fonti alternative”.
“Un Paese cicala, insomma – ha commentato su La Repubblica Giovanni Valentini – che rifiuta l’austerità, dissipa il proprio patrimonio naturale, depreda l’ambiente per il presente e per il futuro, anche a danno delle prossime generazioni”. Un giudizio duro, però abbastanza giustificato. Certo, sono mancate politiche previdenti da parte dei governanti, ma da parte dei cittadini non si è mai manifestata una concreta richiesta di mutamenti di rotta. E gli stessi movimenti ecologisti spesso hanno finito col confondere il messaggio ambientalista con le polemiche, legittime ma devianti, della politica quotidiana. Ci vantiamo da sempre di essere “il Paese del sole”, ma sui tetti delle nostre case e delle nostre fabbriche ci sono meno pannelli solari che in Germania. Abbiamo trascurato la risorsa del vento, che in alcune regioni come la Sardegna sarebbe preziosa, mentre la Spagna ha largamente diffuso l’impianto di pale eoliche. E, ancora, abbiamo la possibilità di sfruttare il calore terrestre, i vegetali da cui ricavare carburanti “puliti”, i nostri stessi rifiuti, che alacremente produciamo a ritmi sempre più intensi, non di rado smaltiti a fondo perduto, o attraverso l’intervento di astuti lestofanti.
Evidentemente non basterà, né in Italia né altrove. Si dovranno ripianificare, in fretta, i nostri stili di vita, i nostri comportamenti. Basta guardarsi attorno dalla mattina alla sera di un giorno qualsiasi, per capire quello che non funziona, e che non può continuare all’infinito, pena un tilt drasticamente conclusivo. Nuove regole saranno senza dubbio necessarie, ma intanto ognuno dovrebbe imparare a seguire quelle che ci sono.
In attesa di svolte epocali, considerate attuabili ma non esattamente dietro l’angolo, quale il passaggio dal petrolio (che tra l’altro non durerà in eterno) all’idrogeno. E la Commissione europea non ha neppure escluso del tutto un ricorso parziale all’energia nucleare, pur mantenendo sull’argomento un prudente riserbo, limitandosi a consigliare di non disattivare le centrali esistenti. Il nucleare, giustamente, mette paura solo a nominarlo, anche se è un fatto che quando acquistiamo energia elettrica per accendere le nostre lampade, una parte viene dalla fissione dell’atomo. Allora, prima di esprimere un parere, sarebbe indispensabile una seria e conclusiva verifica dei rischi e dei vantaggi. E garanzie assolute, ammesso che si possibile darne.
Comunque, non possiamo evitare delle scelte radicali di cambiamento. E, di questo dobbiamo essere sicuri, non sarà indolore.
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