Tn allarme che non vuole suscitare un clima di allarmismo, certo. Ma gli indizi che destano preoccupazione per le attività del terrorismo islamico nel nostro Paese sono concreti, e segnalano pericoli non sempre facili da prevenire data la loro frammentazione, e le varie matrici che sono alla loro origine. Anche se - come elemento unificante comune a tutte le componenti di questo mosaico - è costantemente presente un fanatismo sordo e cieco che (senza offesa per i credenti di alcuna religione) dobbiamo definire “religioso”.
Il rischio di attentati, da qualche tempo latente, starebbe assumendo connotati più precisi. Lo ha denunciato, alla fine del luglio scorso, Antonio Manganelli, capo della Polizia, alla Commissione affari costituzionali della Camera, sottolineando “il particolare attivismo delle cellule terroristiche salafite collegate in qualche modo ad al-Qaeda”. Si tratta di una precisazione significativa, perché collega la minaccia diretta contro obiettivi italiani all’offensiva dell’estremismo islamico in Marocco, Algeria e Tunisia, tre nazioni nelle quali da anni i sostenitori della teocrazia contestano, con azioni sanguinose, gli indirizzi laici dei rispettivi governi. Lì, appunto, il salafismo ha trovato un terreno particolarmente fertile, ad imitazione dell’Afghanistan talebano, e con una spinta precisa a portare gli attacchi nella dirimpettaia Europa.
Salafiyya significa “culto del passato” (da salaf, antenato), e i salafiti si rifanno a una purezza delle origini che consiste nel considerare come regole da seguire, e da imporre, il Corano e le Sunnah, gli insegnamenti tratti dai comportamenti di Maometto.
I primi predicatori del salafismo erano stati i volontari magrebini, soprattutto algerini, reduci dall’Afghanistan, dove avevano combattuto contro le truppe sovietiche che appoggiavano il regime di Majbullah. All’epoca (la fine degli anni ’80, ancora in clima di “guerra fredda”) questi guerriglieeri erano stati visti favorevolmente da Washington, e sostenuti dai servizi speciali americani, che sponsorizzavano i loro campi di addestramento in Pakistan; inoltre i feddayn antisovietici avevano ricevuto generose sovvenzioni in armi e denaro dall’Arabia Saudita e da altri Paesi arabi “moderati”. Così, del resto, era nata e si era rafforzata la stessa “base” di Osama bin Laden. Una volta tornati in patria, però, gli “afgani” (come erano chiamati) avevano sposato una dottrina di lotta che inglobava gli “atei” di qualsiasi colore, sviluppando nello stesso tempo un attivismo fondamentalista diretto contro i loro governi, giudicati “eretici” perché troppo inclini a una visione laica e occidentale della società.
In Algeria, gli “afgani” avevano creato il Fis (Fronte islamico salafita), che diffondeva il credo salafita massacrando gli abitanti dei villaggi che rifiutavano la sua dottrina pura e dura. E incontrando comunque un discreto numero di adesioni, tanto che alle elezioni del 1991 il Fis aveva ottenuto la maggioranza dei voti. Le elezioni erano state annullate dal governo del Fln (il Fronte di liberazione nazionale che nel 1962 aveva conquistato l’indipendenza dalla Francia), e il Fis aveva dato vita alla Fia (Gruppi islamici armati) che da allora conduce una lotta a fasi alterne, con scontri e attentati terroristici, contro le autorità di Algeri. Da una scissione della Gia, nel 1998, era nato il Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento), che nel 2006 si è formalmente alleato con al-Qaeda. E nel frattempo il fondamentalismo armato si è diffuso in Tunisia, in Marocco e in Egitto. Gruppi connotati da sigle diverse, tutti apparentemente tesi a perseguire il duplice obiettivo di minare i regimi - accusati di tradimento ed eresia - dei rispettivi Paesi, e di portare la loro azione in Europa, facendo proseliti tra i magrebini l’ immigrati.
A questo punto l’intervento più o meno diretto di al-Qaesa può anche passare in secondo piano, e Manganelli ha precisato che, pur se lo stato maggiore di Osama bin Laden concede ai diversi gruppi nordagricani una sorta di franchising, non si deve pensare che “tutto quanto viene fatto sia preventivamente benedetto dal vertice di un’organizzazione centrale che, riteniamo, non esista”. Del resto, il fronte del terrorismo islamico appare troppo ampio - dalle coste dell’Atlantico alle regioni dell’Asia centrale - per consentire l’esistenza di un comando unico. E i salafiti magrebini sembrano sufficientemente sperimentati da poter agire autonomamente, con una loro tattica inserita nella complessiva strategia jihadista.
E’ ovvio chiedersi perché l’Italia sia un obiettivo di questi fanatici, ma sarebbe vano attendere una risposta minimamente logica. il terrorismo islamico non si basa su motivazioni in qualche modo ragionate, ma su pretesti “a posteriori”, approfittando di ogni occasione che gli viene maldestramente fornita. Come, tragico esempio tuttora in corso, la guerra in Iraq. Il terrorismo islamico è insieme generalizzato e selettivo, in primo luogo contro gli stessi musulmani, incurante (anzi, quasi ansioso) di aumentare il numero dei “nemici” da eliminare, puntando alla confusione e all’instabilità, cercando di provocare nuovi conflitti che gli consentano di sussistere. E inserendosi ovunque gli sia possibile.
Quindi il rischio sembra reale. Il Capo della Polizia ha citato l’operazione che ha neutralizzato una cellula che operava nella moschea di Perugia: “Il modo di operare dell’imam di Perugia è simile a quello riscontrato nei progetti degli attentati di Londra del 21 luglio 2005, dove non sono stati usati tritolo e dinamite, ma una miscela di prodotti chimici legali, come fertilizzanti e altro, acquistabili anche al supermercato”. A questa relativa facilità di procurarsi gli strumenti degli attentati, fa riscontro la difficoltà di individuare gli attivisti del terrore, ben mimetizzati tra migliaia di correligionari, in comunità che per vari motivi risultano chiuse nei confronti di chi non ne fa parte.
Pochi giorni dopo l’allarme lanciato da Antonio Manganelli, è stato reso noto il rapporto del Comitato di coordinamento dei servizi segreti (proprop mentre veniva approvata la riforma dei servizi stessi), nel quale le segnalazioni del Capo della Polizia vengono confermate. L’infiltrazione di gruppi jihadisti magrebini nel nostro Paese potrebbe avere conseguenze “potenzialmente letali a breve termine”, data la presenza di “un apparato reticolare di provenienza nordafricana”.
Tra le misure annunciate, spicca quella di un controllo più stretto, cominciando da una “mappatura”, delle moschee, programmata anche dalla Commissione dell’Unione Europea. In Italia questi lughi di culto sono 735, più che raddoppiati negli ultimi sei anni. Khaled Fouad Allam, deputato della Margherita di origine algerina, docente all’Università di Trieste, insieme al senatore Marcello Pera e al deputato Jole Santelli, entrambi di Forza Italia, propone l’istituzione di un registro degli imam, nel quale ogni predicatore islamico dichiari la sua identità, e i titoli che lo qualificano a ricoprire il suo rolo. Un modo per cercare di distinguere i “buoni” dai “cattivi” maestri, e anche - riteniamo - per evitare una criminalizzazione indiscriminata dettata dalla paura. Una deriva che gioverebbe solo agli strateghi del terrorismo.
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