“Per la Diaz e Bolzaneto si va al di là di ogni capacità di comprensione”, aveva detto, in un’intervista a La Repubblica del 21 marzo scorso, il ministro dell’Interno Giuliano Amato, commentando lo svolgimento dei procedimenti giudiziari per i fatti del G8 del luglio 2001. “Una bruttissima storia”, aveva detto Amato, e non si può non essere d’accordo. Una vicenda che già in partenza si annunciava male, con la scelta di Genova per il rituale incontro dei “grandi della Terra”, una città la cui conformazione era la meno adatta a una corretta gestione dell’ordine pubblico. Una gestione che sarebbe stata sicuramente difficile, dato l’annunciato arrivo di numerosi manifestanti italiani e stranieri, e avrebbe quindi richiesto particolari doti strategiche e di equilibrio. Si era pensato di risolvere il problema mettendo la città in stato d’assedio, allestendo con cancelli di ferro e sbarramenti una sorta di “zona verde” ante litteram, e nello stesso tempo preoccupandosi bizzarramente delle fioriere e dei panni stesi nei carrugi. Nell’insieme, si era creato un clima di tensione potenzialmente pericoloso, al quale era seguita una gestione sul campo delle Forze dell’ordine plurima, e per alcuni aspetti nevrotica, abbandonata a se stessa, alle iniziative e alle reazioni, anche violente, dei singoli. Con due momenti di particolare gravità, che rimangono tristemente emblematici: l’irruzione notturna nella scuola Diaz, sede del Social Forum, e il trattamento dei dimostranti arrestati nella caserma di Bolzaneto. Due situazioni diverse tra loro, ma entrambe indicative di dove può condurre lo smarrimento dei principi della ragione e della legalità.
“Un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell’uomo, per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere”, hanno scritto i pubblici ministeri a proposito dei fatti di Bolzaneto. Aggiungendo che “bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino, e comunque non abbiano più a ripetersi”.
Da una parte, alla scuola Diaz, un’irruzione priva di motivazioni, un pestaggio di gente che dormiva, un’operazione condotta sul filo di una sceneggiatura sgangherata, affrettatamente giustificata dal rinvenimento di due molotov, poi sparite nel nulla. Dall’altra parte, le violenze della caserma di Bolzaneto, con una presenza prevalente della Polizia Penitenziaria: lì, ha rilevato Giuliano Amato, “non si doveva fare i conti con la pressione della piazza”, lì c’erano delle persone pienamente assoggettate al potere di quelli che dovevano essere i loro custodi, e nient’altro. Le percosse, le umiliazioni a uomini e donne, gli insulti ripetuti, i detenuti lasciati sanguinanti nelle celle… Un quadro di fronte al quale non si può tacere, ostentare distacco, avere fretta di voltare pagina e dimenticare.
E’ quanto hanno mostrato di voler fare buona parte dei politici, di tutte le tendenze. Chi sta in alto è abituato a glissare sulle cadute, di stile e di sostanza, delle Istituzioni, a non andare al fondo dei problemi. Gli episodi del G8 2001 sono stati variamente utilizzati sul piano della polemica contingente, ma poi, dopo sette anni, sembrano un argomento passato di moda, E comunque scomodo. E come ultima risorsa, si usa un argomento apparentemente virtuoso: “Non si può mettere sotto accusa la Polizia!”. E’ una frase che ricordiamo, e molti non più giovani poliziotti la ricorderanno con noi, e avranno già capito.
Erano gli anni ’70, anni difficili, duri, per tutti. Per i poliziotti erano particolarmente duri, chiusi in una condizione di anacronistica servitù di stampo militare, privi di diritti civili, costretti ad obbedire agli ordini più vessatori, ad essere lo strumento cieco, sordo e muto del “potere” (gerarchico e politico) per servizi di ogni tipo, anche i più bassi. Dei “pretoriani”, si diceva con sprezzante ironia, e per di più dei “pretoriani” trattati malissimo, come bassa forza buona essenzialmente a usare il manganello. La realtà all’interno della Polizia era un’altra, ma pochi lo sapevano perché fra la Polizia e i cittadini era stato eretto un muro. E se qualcuno cercava di superarlo, di fare chiarezza su quell’Istituzione, ecco l’argomento del “non si può indagare sulla Polizia”. Va detto che questa situazione si protraeva nella sostanziale indifferenza di tutti, governi, opposizioni, sindacati. Per gli uni i poliziotti costituivano un comodo strumento, per gli altri erano genericamente dei “nemici” che non valeva nemmeno la pena conoscere meglio. Pierpaolo Pasolini, nel ’68, aveva provato a farlo, e anche i suoi amici gli avevano dato del visionario.
Nessuno mostrava di voler muovere un dito per cambiare la Polizia, e allora, fatto unico, straordinario, autenticamente rivoluzionario, i poliziotti decisero di assumere loro questo compito. Nacque così fra i poliziotti di quegli anni, con l’appoggio esterno di pochi illuminati volenterosi – e il primo fra questi fu il giornalista Franco Fedeli, fondatore di Polizia e Democrazia – il Movimento di quelli che assunsero il nome di “carbonari”.
All’inizio le autorità lo presero come una mattana di poche “teste calde”: non si era mai vista una cosa del genere, dei poliziotti che parlavano di democrazia, di diritti sindacali, di smilitarizzazione. Poliziotti che proclamavano di voler essere dei lavoratori a fianco degli altri lavoratori. Poliziotti che denunciavano i comportamenti violenti che gli uomini della Pubblica sicurezza erano portati ad assumere dal clima autoritario instaurato da chi li comandava. Semplici poliziotti, funzionari, ufficiali, che, sempre più numerosi, dicevano: basta tiriamo fuori tutta la verità, rivendichiamo la nostra dignità di cittadini a parte intera.
La lotta non fu né facile, né indolore. Le minacce, le sanzioni disciplinari, i trasferimenti a ritmo continuo si alternavano alle blandizie, ai richiami allo “spirito di corpo”. I “carbonari” rischiavano molto, senza certezza di successo, convinti della giustezza della loro causa. Chi scrive ricorda, da cronista, alcune delle loro riunioni, all’inizio in sale ottenute in prestito da circoli e associazioni, o in piccoli cinema di quartiere: dibattiti lunghi, accesi, su temi di largo respiro, condotti da persone che non avevano alle spalle alcuna preparazione alla dialettica. E all’uscita, un manipolo di carabinieri, in borghese, a fotografare gli intervenuti. Poi, con la tenacia e i sacrifici di quei poliziotti, il Movimento era riuscito a farsi ascoltare, a coinvolgere la stampa, i sindacati, esponenti politici, a suscitare la solidarietà degli altri lavoratori (che li avevano visti solo come “servi dei padroni”), e così, passo dopo passo, si è arrivati alla riforma del 1981. E la Polizia non è stata più quella di prima. Grazie a loro, grazie al coraggio, all’onestà civile di uomini il cui insegnamento – anche se loro non hanno mai pensato di essere dei maestri – sarebbe bene non dimenticare.
Proprio perché la Polizia è oggi un’Istituzione sana, salda nei suoi principi di civiltà e di democrazia, le eventuali azioni riprovevoli di alcuni suoi componenti possono compromettere la sua immagine solo se queste azioni, invece di essere apertamente denunciate, chiarite sino in fondo, e sottoposte al vaglio della giustizia, vengono taciute e coperte in nome di un’omertà che non ha motivo di essere. Fare chiarezza, sempre, è nell’interesse di tutti, e soprattutto dei veri poliziotti, vale a dire della stragrande maggioranza.
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