“Che la questione sia reale credo che non ci sia dubbio. Come anche che sia diventata attuale, anche con un suo grado di urgenza”: così Giorgio Napolitano ha commentato, nel giugno scorso, il dibattito sul disegno di legge riguardante le intercettazioni giudiziarie, e la loro pubblicazione da parte dei media. Il Presidente della Repubblica non poteva che prendere atto di un dato di fatto, esprimendo inoltre l’auspicio che si giungesse a soluzioni concordate e condivisibili. Nel frattempo il dibattito si è fatto più acceso, e sul tema si sono create posizioni contrapposte difficilmente conciliabili.
In effetti le misure annunciate contenute nel disegno di legge governativo sono tali da destare qualche perplessità, presentandosi obiettivamente come un giro di vite nei confronti della magistratura e della libertà d’informazione, due settori in questo caso strettamente collegati tra loro. Le intercettazioni occupano la posizione più visibile, dato il gran parlare (e scrivere) che se ne fa da tempo, tra i provvedimenti annunciati, ma in generale a essere “messi in riga” sono l’insieme delle indagini giudiziarie, e i modi e i tempi con cui esse sono rese pubbliche.
Le intercettazioni, dunque. Sono eccessive, affermano quelli che possiamo definire “garantisti a oltranza”, violano la privacy, e la violano due volte quando il loro contenuto viene diffuso dai media. Al contrario, il loro numero è limitato da regola precise, ribattono quelli che i “garantisti a oltranza” chiamano “giustizialisti”, sono indispensabili alle indagini, e i media rivelano solo le parti che riguardano reati e comportamenti di interesse pubblico. Chi ha ragione? Certo, come prima reazione la prospettiva di poter essere ascoltato quando si parla al telefono risulta irritante, e subito scatta lo spettro del Grande Fratello che spia tutti fino nei più intimi recessi. Ma la realtà è molto diversa, le intercettazioni “di massa” effettuate a tappeto tanto per vedere se qualche reato salta fuori, non esistono.
Con le leggi attualmente in vigore, le intercettazioni, telefoniche e ambientali (queste molto più difficili da realizzare), sono ammesse anzitutto per reati specifici, come terrorismo e criminalità organizzata, e poi per quelli puniti con una pena massima prevista superiore a cinque anni di reclusione. L’autorizzazione per effettuare un’intercettazione deve essere richiesta dal pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari, segnalando i gravi indizi che segnalano la probabilità dell’esistenza di un reato, e la necessità delle intercettazioni per accertare la concretezza di tali indizi. Questa necessità deve essere motivata per ogni singola utenza riconducibile alla persona indagata (abitazione, luoghi di lavoro, cellulari), e non complessivamente per tutte. Il gip concede l’autorizzazione per un periodo di quindici-venti giorni, che può essere prorogato fino al termine delle indagini se il pm motiva precisando l’esigenza di verificare ulteriormente dei riscontri già ottenuti.
Le intercettazioni sono effettuate dalla Polizia giudiziaria, con impianti che devono essere collocati all’interno delle Procure. Solo il giudice per le indagini preliminari può concedere il permesso di utilizzare impianti esterni, anche negli uffici della Polizia giudiziaria, e solo nel caso che quelli situati nelle Procure siano indisponibili
La Polizia giudiziaria trascrive le telefonate ascoltate in diretta, e registrate, redigendo dei brogliacci, e nel caso che venga registrata una notizia che richiede un pronto intervento viene subito avvertito il procuratore della Repubblica affinché prenda gli opportuni provvedimenti. I brogliacci e le registrazioni sono consegnate al pm che coordina le indagini, al quale spetta il compito di selezionare quelle ritenute utili. Tutte le altre sono depositate a disposizione degli avvocati della difesa.
Ora questo meccanismo giudiziario viene pesantemente attaccato dal nuovo disegno di legge. L’uso delle intercettazioni è consentito solo nel caso di ipotesi di reato che prevedono pene superiori a dieci anni di reclusione, eccettuati quelli per mafia e terrorismo, e il gip potrà concedere un periodo massimo di quindici giorni, prorogabile per una durata complessiva massima di tre mesi. “Un progetto che risponde soltanto al terrore che la classe politica nutre nei confronti dello strumento investigativo più efficace per far luce sui reati commessi dalle classi dirigenti – ha dichiarato Bruno Tinti, Procuratore aggiunto di Torino, in un’intervista a l’Unità – Non ha alcun senso il limite di cui si è parlato [per mafia e terrorismo, n.d.r.] in questi giorni. Facciamo un esempio: in caso di omicidio il primo passo da fare è lavorare sulle utenze telefoniche. E chi può dirci se si tratta di un omicidio di mafia o di un crimine passionale? E pensiamo ai reati economici: senza le intercettazioni non ci sarebbe più nessuna inchiesta”.
A questo proposito non vi è dubbio che negli anni passati, da Tangentopoli in poi, le intercettazioni hanno permesso di smascherare una serie impressionante di operazioni illecite che altrimenti sarebbero rimaste coperte da complicità e omertà di vario tipo. Basti pensare al rilievo che hanno avuto, e continuano ad avere, attraverso la stampa e la televisione.
E anche di quest’ultimo aspetto il disegno di legge si occupa in maniera decisa e pesante. Le cronache giudiziarie dovranno avere limiti precisi e notevolmente ristretti. Anzitutto, divieto di pubblicare gli atti delle indagini preliminari fino al termine dell’udienza preliminare.
Per il giornalista che contravviene a questa disposizione è prevista una pena fino a 3 anni di carcere, e una fino a 5 anni per il magistrato che avesse divulgato quegli atti. E passando alle intercettazioni, i giornalisti che ne pubblicassero delle parti, incorrerebbero in una pena ancora più pesante, 5 anni di prigione, con l’aggiunta di una pesante multa per gli editori. “E’ un bavaglio alla stampa – ha reagito Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa – La galera per i giornalisti fino a cinque anni per la sola ragione di aver pubblicato notizia o atti di intercettazioni che altri semmai dovevano custodire, sarebbe un atto fuori legge. Il diritto-dovere di dar conto di indagini in corso, e quello del pubblico a ricevere informazioni, prevale sull’esigenza di segretezza, come ha stabilito un anno fa la Corte europea dei Diritti dell’uomo”. E De Bortoli, direttore del Sole-24 ore, aderendo alla protesta della sua redazione, commenta: “Non avevamo capito che la tolleranza zero, che ci vede d’accordo, contro criminalità e immigrazione clandestina, si applica a cominciare dai cronisti di giudiziaria”.
Volendo trarre una prima riflessione su questo intervento legislativo, si ha l’impressione che esso nasca soprattutto dal fastidio dall’insofferenza che alcune categorie di “potenti” provano nei confronti di chi, in modi diversi, esercita un qualsiasi controllo sul loro operato. La difesa della tanto decantata privacy rischia di trasformarsi semplicemente in un’ulteriore protezione di interessi privati nella cosa pubblica. E di questo davvero non si sente il bisogno.
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