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Novembre-Dicembre/2014 - Interviste
La storia
“L’Ora”, Palermo, la mafia
di Carlo Ruta

Ventitre anni fa il quotidiano siciliano chiudeva i battenti, dopo
quasi un secolo di vita e dopo decenni di battaglie ai ferri corti
con la mafia. Gli slanci, le motivazioni e le lezioni di quell’avventura
in redazione in una conversazione con Letizia Battaglia,
fotoreporter storica del giornale


La fine de “l’Ora” era stata annunciata diverse volte lungo i decenni, perché i problemi, soprattutto economici, in questo piccolo giornale non erano mai mancati. Ma nel 1992 la storia del quotidiano di Palermo era all’epilogo. In quei momenti i redattori speravano ancora che la loro «fenice» riuscisse a risorgere, prima che le rotative si fermassero. Falliti però tutti i tentativi di accordo tra la cooperativa dei giornalisti, il Pds, proprietario della testata e degli impianti, e il nuovo editore, la Nem, le possibilità erano nulle. L’9 maggio 1992, l’ultimo numero del quotidiano intitolava, in modo significativo, «Arrivederci», e aggiungeva: «Oggi il giornale sospende le pubblicazioni ma non vogliamo dire addio ai nostri lettori». Nell’editoriale di quel giorno era Michele Perriera a spiegare cosa era stato e cosa aveva reso importante l’esperienza del giornale, ma anche i motivi che lo avevano costretto alla chiusura.
Lo scrittore palermitano riteneva che l’errore principale fosse quello «di credere che sarebbe stato il Nord a salvare il Sud, e che quindi non convenisse investire troppo nel Sud caotico e corrotto». E questo errore, a nome di tutta la redazione, l’editorialista lo imputava alla proprietà, cioè al Partito Comunista, cui sarebbe sempre sfuggito che «il destino della democrazia italiana si può riqualificare solo a partire dal riscatto delle sue zone più martoriate e più malsane».
“L’Ora”, da Gian Luigi Ingrassia a Vittorio Nisticò, da Etrio Fidora a Vincenzo Vasile, non possedeva le risorse finanziarie per poter essere un giornale «perfetto». Non godette mai di una diffusione importante, nella stessa Sicilia. Nei primi anni settanta, quando era all’apice del suo impegno investigativo e di denuncia, vendeva solo 20mila copie al giorno, in gran parte a Palermo, città che contava allora quasi 700mila abitanti. Era però una voce diversa e un’esperienza complessa, pure sotto il profilo intellettuale. L’importanza che riuscì a conquistare crebbe quindi a prescindere dai numeri e dalle ristrettezze aziendali. Giuliana Saladino, che ne era una delle firme più incisive, nel 1972 lo ritraeva come «un giornale con pochi soldi, disordinato e coraggioso», che collezionava «errori impennate cadute salti all’indietro e salti in avanti», e che comunque, «abbarbicato con le unghie e con i denti ad una certa linea sicilianista», non si stancava di denunciare gli scandali e di gridare contro la mafia che dominava la vita pubblica siciliana. Pagò per questo modo di essere un prezzo alto, con attentati, di cui uno distruttivo, e, soprattutto, con tre morti: un caso unico nella storia del giornalismo italiano del secondo Novecento. Cosa che ne faceva, a ben vedere, non solo o non tanto un giornale in un teatro di guerra, ma un giornale in guerra.
... [continua]

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