La visita ufficiale a Roma, nel giugno scorso, di Muhammar Gheddafi ha avuto evidenti e spettacolari aspetti farseschi (l’uniforme stracarica di galloni dorati, la grande tenda beduina piantata nei giardini di Villa Pamphili, il plotone di avvenenti amazzoni della sua guardia personale), ma questo non significa che non si sia trattato di un avvenimento piuttosto serio. E, volendo andare a guardare dietro le quinte, inquietante. Con due punti chiave: i rapporti economico-finanziari tra Roma e Tripoli, e il problema degli immigrati clandestini provenienti da vari Paesi africani che dalla Libia sbarcano, o tentano di sbarcare, sulle coste italiane.
Il primo punto è chiaramente quello ritenuto più importante. Certo, la Libia - o meglio la Grande JamÇhariyya Araba di Libia Popolare e Socialista - è notoriamente una delle più consolidate dittature esistenti. Il potere, formalmente attribuito al “popolo”, è di fatto nelle mani del solo Gheddafi, con il ruolo di “Guida della rivoluzione”, sostenuto da una casta di militari, burocrati e affaristi. Partiti politici e sindacati sono vietati per legge, come il diritto di sciopero. Non esiste un potere giudiziario indipendente, la giustizia è amministrata sommariamente da “comitati popolari”, ai quali si aggiungono i tribunali “rivoluzionari” e militari. Tutto questo esiste dal 1969, quando un colpo di stato depose la monarchia, e con alterne vicende il colonnello è riuscito a tenersi a galla malgrado le condanne internazionali per le sue pesanti implicazioni con il terrorismo, alternando blandizie e minacce nei confronti di tutti, e mantenendo costantemente all’estero una schiera di interessati supporter. All’estero, e soprattutto in Italia, dove gli “amici” di Gheddafi hanno una collocazione assolutamente bipartisan, da destra a sinistra con poche eccezioni.
Va detto che fino dal suo arrivo all’aeroporto di Fiumicino il colonnello ha mostrato di essere un ospite molto originale, esibendo sul petto una grande foto di Omar el Mukhtar, l’eroe della rivolta libica contro l’occupazione italiana, ucciso nel 1937: aggiungendo “Sono venuto perché l’Italia ha chiesto scusa”. In realtà da oltre sessant’anni l’Italia democratica e repubblicana ha rinnegato il passato coloniale dei precedenti regimi, ma evidentemente per Gheddafi contano solo le scuse fatte personalmente a lui. Dopo di che il raïs si è maestosamente esibito nel ruolo di statista. Prima a Palazzo Giustiniani (qui all’ultimo momento si era evitato di riceverlo nell’aula del Senato), affermando che il terrorismo di al-Qaeda è eguale a quello americano. Poi all’Università La Sapienza, dove ha esibito le sue majorettes armate come esempio di parità di diritti per le donne, mentre veniva accortamente tacitata la richiesta degli studenti per un dibattito aperto. E infine in Campidoglio, davanti a una piazza riempita da dipendenti comunali appositamente convogliati, ha proclamato: “Se il popolo italiano me lo chiedesse io gli darei il potere, e chiuderei i partiti e la democrazia in Italia”. Fortunatamente il sindaco Alemanno ha ribattuto: “La parte del discorso sullo scioglimento dei partiti in Italia è inaccettabile. Non accettiamo lezioni di democrazia da nessuno”.
Resta il fatto che, a quanto sembra, sull’amico di Tripoli non si può essere troppo sofistici. Basta vedere con quanto entusiasmo è stato accolto il trattato italo-libico, nel quale si parla essenzialmente di soldi, di “progetti e infrastrutture” che dovrebbero dare il via ad appalti da milioni di dollari per le aziende italiane. Una parte di questo denaro, cinque miliardi di dollari in 25 anni, sarà versato dall’Italia - o meglio, dall’Eni, che da tempo in Libia sfrutta giacimenti di gas e petrolio -, e questo contributo dovrebbe appunto aprire le porte a tante aziende nostrane interessate a entrare nella spartizione di grandi lavori in vari settori: l’ampliamento della rete elettrica e di quella telefonica, la costruzione di centri abitativi e aree industriali, aeroporti, autostrade, metropolitane, impianti di desalinazione, cementifici, forniture di aerei e elicotteri. Oltre alla ricerca di nuovi giacimenti. E agli investimenti libici nel settore bancario, già presenti in Unicredit, e previsti in Mediobanca. Nei giorni della visita romana Gheddafi ha ricevuto nella sua tenda praticamente tutti i più importanti manager della finanza e dell’imprenditoria, da lui fantasiosamente definiti “Soldati di questa epoca, pionieri della battaglia per le infrastrutture e il cibo”. Il cibo? Sì, infatti fra le aziende ricevute nella tenda ve n’è anche una leader nella macellazione delle carni. “La Libia è un Paese stabile, ideale per fare affari”, ha sottolineato un’imprenditrice che con l’ex “quarta sponda” ha da anni rapporti di lavoro. “Certo - ha ammesso - bisogna risolvere l’enorme problema politico dell’immigrazione”.
A questo proposito vi è il progetto, con la partecipazione di Finmeccanica, di un grande progetto di controllo radar e satellitare alle frontiere libiche, per ostacolare il flusso degli africani che cercano di raggiungere l’Europa. Sinora questo flusso è stato gestito da trafficanti libici, sovente con la complicità delle autorità locali, che comunque non hanno mai garantito ai migranti i più elementari diritti umani. Del resto la Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato, e non ha una legge sul diritto d’asilo.
Questo riporta il discorso ai tanto discussi “respingimenti” (in Libia) delle imbarcazioni che si avvicinano alle nostre coste con a bordo i loro carichi di clandestini, dei quali non è stato accertato il diritto a chiedere asilo politico. Questo controllo dovrebbe essere effettuato nel primo Paese d’arrivo, cioè la Libia, ma, ha scritto sul quotidiano britannico The Guardian Bill Frelick, dirigente di Human Rights Watch, è illusorio affidarsi a “patti con i Paesi extracomunitari che non si sono assunti l’impegno di proteggere i rifugiati, non prevedono procedure per fare richiesta d’asilo e sono noti per il trattamento disumano e degradante che riservano agli immigrati”.
Un punto di vista simile a quello espresso dal presidente della Camera Gianfranco Fini in un convegno a Madrid: “Sarebbe immorale dire subito: sei clandestino, ti rimando al tuo Paese. Sarebbe come condannare quella persona a morte, in alcuni casi. E’ infatti assolutamente indispensabile distinguere chi chiede asilo politico. I rifugiati non possono essere automaticamente equiparati al clandestino, perché così si farebbe venir meno la dignità della persona umana”.
Tornando all’accordo Italia-Libia, sul piano delle garanzie abbiamo deciso di fidarci di Gheddafi, il quale non si è peritato - pur essendo presidente dell’Unione Africana - che per i nativi di quel continente la democrazia sarebbe un optional inutile. Nel frattempo diviene legge dello Stato il decreto sulla sicurezza (sarebbe più giusto dire sulla “percezione di insicurezza”), che ipotizza di risolvere il problema stabilendo un “reato di clandestinità” che difficilmente scoraggerà l’attività (che è sempre stata illegale) dei trafficanti che sfruttano l’immigrazione clandestina, ma colpirà soprattutto le vittime del traffico, ingolfando il lavoro dei magistrati e riempiendo le carceri già sovraffollate. E, in luogo di fornire nuove risorse alle Forze di polizia, si dà il via ufficialmente alle ronde, estemporanee iniziative nate e cresciute sotto il segno di una paura confusamente diffusa al pari di una pandemia.
Il tutto, secondo il ministro dell’Interno Roberto Maroni, sarebbe “un passo in avanti molto importante per garantire la sicurezza dei cittadini. Non è un provvedimento razzista”. Lasciando da parte il razzismo, ci sembra lecito riscontrare una tendenza ad affrontare un problema reale più con delle parole - anche con le parole di una legge - che con dei fatti concretamente realizzabili, secondo giustizia, logica, e rispetto della dignità di tutti.
|