Le ricorrenze storiche, essendo basate su qualcosa di definitivamente avvenuto in un tempo più o meno lontano, di solito non riservano sorprese, ma fare previsioni sulle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia (1861-2011) sarebbe un azzardo. Anche l’impegno appare sobriamente (come raccomandato dal presidente della Repubblica, viste le strettoie della crisi economica) adeguate, con in campo un comitato interministeriale, una commissione di garanti presieduta da Carlo Azeglio Ciampi, un comitato di esperti, e un’unità tecnica. E nove opere, distribuite da nord a sud, per un investimento complessivo di 262 milioni di euro: un nuovo palazzo del cinema a Venezia, il restauro del San Carlo a Napoli, un aeroporto internazionale a Perugia, un grande auditorium a Isernia, la ristrutturazione del museo archeologico a Reggio Calabria, il Parco della musica a Firenze, il nuovo Parco Dora a Torino, il restauro del Broletto a Novara, due parcheggi e un parco a Imperia. Quattro al nord, due al centro, tre al sud. Nessuna prevista, almeno per ora, in Sicilia. Eppure, la celebrando unità fu arditamente avviata proprio dallo sbarco dei Mille a Marsala, e conclusa con la campagna vittoriosa di Garibaldi fino al Volturno: poi, il contenzioso di Teano, e un’unificazione della penisola di stampo nettamente “nordista” (ante litteram, beninteso) gestita da poteri politici ed economici che degli ideali unitari di Garibaldi e dei suoi volontari (peraltro in larga misura settentrionali) si servivano fedeli al sempiterno patriottismo degli affari. Ma, tornando alle opere previste, sarebbe meschino misurarle con il bilancino geografico. Tanto più che sul tema “unità” c’è ben altro di cui preoccuparsi, mentre si susseguono e si intrecciano voci discordanti che vanno dal dubbio alla netta ostilità, come se invece di una ricorrenza si trattasse di una scadenza.
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“Noi siamo da secoli calpesti e derisi – perché non siam popolo, perché siam divisi”, recita il nostro (finora) inno nazionale, scritto dal poeta genovese Goffredo Mameli, che a 22 anni perse la vita nella difesa della Repubblica romana. Evidentemente questo valeva in quei tempi risorgimentali di frustrazione e di speranza. Oggi, si direbbe che - in mancanza di occupanti stranieri che ci calpestino e ci deridano -, abbiamo deciso di farlo da soli. Certo, ripetiamolo, il Risorgimento aveva avuto luci e ombre, alcune zone del Paese erano state pesantemente penalizzate, lasciate a rimorchio, considerate prevalentemente come serbatoi di forza lavoro. Una situazione mai pienamente sanata secondo logica e giustizia. Ma dopo le vicissitudini di due guerre (più alcuni conflitti coloniali) e di una dittatura ventennale, metabolizzati vari eccessi nazionalisti, con relativi patetici richiami all’impero dei Cesari, l’Italia repubblicana, nata anche dai valori democratici e popolari (non populisti) della Resistenza, ha assunto, e mantenuto per mezzo secolo la dignità di una nazione libera, rispettata, finalmente europea. E unita, in una struttura articolata di autonomie regionali. Ora è proprio questa unità a essere rimessa in questione, colpevolizzata in tutti i suoi aspetti, politici, sociali, culturali, e si delinea un panorama più che le sempre minacciate “secessioni” promette una serie di “disgregazioni” destinate a rendere irriconoscibile, vuota di significato, l’identità nazionale. Di chi la colpa? Sarebbe vano addossare l’intera responsabilità a chi grida più fprte, a chi lancia le proposte più oltranziste. Vietare ai docenti meridionali di insegnare nelle regioni del nord, a meno che non possiedano una perfetta conoscenza dei dialetti locali? In proposito vi è una bozza di legge, e un ministro ha pubblicamente assicurato che presto sarà varata. Il prossimo passo sarà rendere obbligatorio l’insegnamento in dialetto? E di conseguenza si tradurranno “La divina commedia” e “I promessi sposi” nei diversi vernacoli? Ma perché l’illustre Alessandro Manzoni, invece di perdere tempo a “risciacquare i panni in Arno”, cioè ad affinare il suo già ottimo italiano, non aveva scritto direttamente in dialetto milanese?
La scuola, la lingua, e non è poco. E aggiungiamo un terzo punto, fondamentale per la civile convivenza di una nazione, di un popolo libero e cosciente dei propri diritti e doveri: la sicurezza, un tema che va al di là delle contingenti “percezioni” che vanno e vengono seguendo percorsi spesso eterodiretti. La sicurezza e la sua garanzia, affidata istituzionalmente alle Forze di polizia dello Stato. Non si tratta solo di un fatto tecnico, ma di un elemento “unitario”, sociale e culturale: le Forze di polizia di una nazione democratica sono l’immagine, come la magistratura, dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alle leggi che si sono liberamente date. Tutti i cittadini significa tutta la nazione, senza distinzioni di censo, di nascita o di residenza. Dando per scontato che - al pari di un insegnante e di un magistrato - un poliziotto italiano ha pari dignità ovunque operi in Italia, qualsiasi sia la sua origine regionale. Ebbene, l’ufficializzazione delle ronde “civiche” (comunque siano addobbate e colorate), oltre a porre seri problemi nella gestione dell’ordine pubblico, va in senso contrario a questo principio, è un primo passo verso l’esasperazione degli egoismi campanilistici anche nel campo della sicurezza.
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Ci si deve interrogare sul perché all’approssimarsi della celebrazione del 2011 sia così incombente l’argomento della “disunità d’Italia”. Verosimilmente i motivi devono essere più profondi, e più seri, delle argomentazioni dei tribuni del localismo, del recupero di dubbie mitologie ancora più lontane nel tempo e nello spazio di quelle opinabili di epoca augustea, della contrapposizione all’Inno di Mameli di “Va pensiero”, stupendo brano operistico che però - pur se frutto del genio di Giuseppe Verdi, simbolo dei patrioti di allora - non ha alcun nesso con le traversie delle genti italiche, sia pure padane, che hanno avuto guai a iosa, ma mai furono deportate come gli ebrei del “Nabucco”, di “a lancia e spada il Barbarossa in campo”, e così via, dato che in quanto a riesumazioni nel nostro Paese se ne possono scovare, e inventare, quante se ne vuole. Ma questi sono gli effetti, non le cause di un problema, ancorato in un passato di discrepanze irrisolte, e in un presente di sbandamento etico che riduce anche la definizione dell’unità nazionale a un gioco delle parti con obiettivi limitati alle scadenze elettorali, o con dibattiti di maniera su un “federalismo” che nessuno riesce a dire esattamente, e francamente, che cosa sarà. Forse sarebbe opportuno un recupero collettivo della memoria nazionale. Ma chi si sente di farlo?
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