L’Italia di oggi, “un’Italia in decadenza e regredita”, non gli piaceva. E non poteva piacergli, confrontandola con quelli che erano stati le speranze, gli intendimenti, le passioni - anche contrastanti tra loro - di coloro che si trovarono prima nella Resistenza, e poi nel dopoguerra a lottare e operare per un’Italia libera, democratica, giusta, repubblicana.
Giuliano Vassalli, docente di diritto, socialista, partigiano, parlamentare, ministro, giudice della Corte Costituzionale, è morto il 21 ottobre scorso nella sua abitazione romana. Se ne è andato così, a 94 anni, uno degli ultimi “padri della patria”, definizione che lo avrebbe fatto sorridere ma pienamente adeguata.
Era nato a Perugia nel 1915, figlio dell’avvocato Filippo Vassalli, e si era laureato in giurisprudenza nel 1936. Dopo aver partecipato all’attività culturale delle organizzazioni giovanili del regime fascista, alla fine degli anni Trenta era entrato nel gruppo romano di Iniziativa socialista, ovviamente clandestino, con Matteotti e Zagari, e nel 1943 aveva partecipato alla nascita del Psiup (Partito socialista di unità proletaria) di cui era stato nominato segretario Pietro Nenni, appena tornato in libertà. Dopo l’8 settembre Giuliano Vassalli, fra i primi resistenti all’occupazione nazista, era stato chiamato a fare parte della Giunta militare centrale del CLN. E fra le sue azioni come partigiano ne emerge una, rocambolesca: l’evasione dal carcere romano di Regina Coeli di Giuseppe Saragat, Sandro Pertini - futuri presidenti della Repubblica - e altri cinque detenuti politici, rinchiusi nel famigerato VI braccio.
L’operazione era stata realizzata nel gennaio 1944 da Vassalli e altri partigiani che si erano serviti di documenti tedeschi abilmente falsificati. Ma in aprile toccava a lui essere arrestato dalle SS. E i suoi compagni dubitarono di rivederlo vivo. Nel suo Diario, Pietro Nenni scriveva: “Sulla sorte di Giuliano non è possibile farsi illusioni”, e definiva Vassalli “il migliore dei giovani intellettuali venuti al socialismo dalle organizzazioni fasciste… Severo, apparentemente freddo, silenzioso, c’era in lui una febbre d’olocausto, quasi un bisogno fisico e morale di espiazione. Appunto perché aveva, negli anni giovanili, creduto nel fascismo… si sentiva in dovere di riscattarsi agli occhi suoi. E nel partito aveva scelto gli incarichi più ardui, i più anonimi, i più difficili”. Il pessimismo di Nenni era assolutamente giustificato, e lo stesso Giuliano Vassalli aveva pensato di cercare di uccidersi dopo l’arresto, piuttosto che essere portato a via Tasso dove gli interrogatori sotto tortura erano la regola. Le SS avevano cominciato a massacrarlo nella sua abitazione, e lui racconterà più tardi: “Ero già cieco dalle botte subite, rimasi con i grumi di sangue negli occhi per venti giorni, ero talmente ferito che mi avvolsero in una coperta e cacciarono via tutti i civili che si erano fermati davanti al portone, nessuno doveva vedere in che stato mi avevano ridotto”. Una detenzione, quella di Vassalli, durissima, sempre ammanettato, ma due iniziative parallele, una del Vaticano e l’altra della famiglia Agnelli riuscirono a farlo rilasciare pochi giorni prima dell’ingresso a Roma degli Alleati il 4 giugno 1944.
Nel dopoguerra aveva inizio il periodo, difficile ma esaltante, della costruzione di un Paese nuovo, libero, democratico, e, dopo il referendum del 1946, repubblicano. Giuliano Vassalli, brillante giurista, partecipa da esterno ai lavori della Costituente. La scissione nel partito socialista del 1947 lo porta, da “saragattiano di sinistra”, con i socialdemocratici, ma li lascia non accettando la rottura dell’unità sindacale. Si dedica all’attività di avvocato penalista fino al 1959, quando rientra nel Psi di Pietro Nenni, viene eletto consigliere comunale, deputato, senatore. E ministro della Giustizia, dal luglio 1987 al gennaio 1991, nei governi Goria, De Mita, Andreotti. Nel 1978 e nel 1992 Vassalli fu presentato dal Psi alla Presidenza della Repubblica, ma gli mancarono i voti prima dei comunisti e poi dei Ds, che gli preferirono Pertini e Scalfaro. Nel 1991 è nominato giudice della Corte Costituzionale, della quale è eletto presidente nel 1999, fino al 2000, quando si ritira dall’incarico per limiti di età. Docente universitario, è stato ordinario di diritto e procedura penale a Urbino, Pavia, Padova, Genova, Napoli, Roma.
A fianco di questa carriera avventurosa e di alto livello politico, accademico, professionale, c’è la figura di un uomo gentile e modesto che si guardava bene dal far pesare i ruoli da lui ricoperti, e dall’ostentare la sua grande intelligenza e la sua profonda cultura. Un democratico intransigente, laico, socialista, riformista, e fondamentalmente attaccato ai valori della Costituzione repubblicana, preconizzando solo la correzione del troppo rigido bicameralismo.
E Giuliano Vassalli ha fortemente criticato sino alla fine i tentativi di “riscrivere la storia”, deformandola per fini contingenti. In un’intervista pubblicata da la Repubblica l’8 gennaio 2009, a proposito della proposta del centrodestra di istituire un “Ordine del tricolore” che accomuni ex partigiani e ex repubblichini, sostenuta in particolare dal ministro della Difesa Ignazio La Russa, Giuliano Vassalli affermava di essere contrario “perché è assolutamente chiaro che c’è stata la continuità dello Stato anche dopo l’8 settembre e la caduta del fascismo. E non si può riconoscere a chi ha contrastato lo Stato italiano sovrano schierandosi con la Repubblica sociale il titolo di combattente”. E al ministro La Russa rispondeva: “Ma cosa vogliono ancora? Hanno avuto tutto, l’amnistia di Togliatti, la legittimazione democratica immediata, l’Msi in Parlamento, adesso sono al potere. Eppure vanno avanti incuranti del fatto che non esiste Paese in Europa dove i collaborazionisti del nazismo sono premiati”.
Secondo il suo stile non c’era spirito di vendetta né di rivalsa nelle parole di Vassalli, “ma bisogna fare di tutto per far sapere come stanno realmente le cose. Chiarire a chi non l’ha vissuto cosa è stato quel periodo storico”.
Riassumendo, si capisce perché l’Italia di oggi non gli piacesse.
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