Dialogo sull'ergastolo con il magistrato Elvio Fassone,
autore di un libro che raccoglie la corrispondenza
durata 26 anni tra un detenuto e il suo giudice
Nel corso di un incontro a Imperia, titolato "Una fune sull'abisso", Polizia e Democrazia ha incontrato Elvio Fassone, ex giudice di Cassazione, presidente di Corte d'Assise, per due mandati Senatore della Repubblica e autore del libro "Fine pena, ora". Non è un romanzo di invenzione, né un saggio sulle carceri, non enuncia teorie, ma si chiede come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato.
Dottor Fassone, come mai ha deciso di scrivere questo libro che riguarda una vicenda così personale?
L'ho scritto essenzialmente perché tra me e l'ergastolano, che di nome fa Salvatore, si era instaurato un rapporto che durava ormai da 26 anni. A un certo punto mi è giunta una notizia tragica: il detenuto aveva tentato di impiccarsi ma l'intervento sollecito di un agente gli aveva salvato la vita. In seguito, l'ergastolano mi ha scritto chiedendomi scusa e sottolineando che non avrebbe compiuto più gesti di quel genere.
A colpirmi è stato il suo atteggiamento che codificava "il fine pena ora" al posto del "fine pena mai" e così mi sono chiesto che cosa potessi fare e l'unica risposta che son riuscito a darmi è stata quella di raccontare la vicenda di Salvatore e la sua sofferenza. Quasi un modo per indennizzarla.
Chi era questo Salvatore?
Salvatore era tutt'altro che uno stinco di santo, era uno dei capi della criminalità catanese, autore, secondo gli atti, di una quantità incredibile di delitti anche gravi, un soggetto che definiremmo un criminale. Poi, per quella profondità incredibile che ha l'essere umano, si è rivelato essere anche un'altra persona iniziando a percorrere una strada diversa e confermando che nessun uomo è totalmente un santo o un peccatore.
L'ergastolo, il "fine pena mai", ha ancora un senso oppure no?
Il problema ha diverse sfaccettature. Sono in molti a ritenere che l'ergastolo dovrebbe essere radicalmente eliminato e sostituito con una pena temporanea, sia pure di ampia durata.
Io mi sono convinto che l'ergastolo debba essere conservato perché certi crimini sono troppo pesanti ed efferati: pensiamo, per fare un esempio qualsiasi, al terrorista che ha assassinato 84 persone sulla promenade di Nizza, oppure a delitti crudeli o seriali. In questi casi, partire fin dall'inizio con una sia pur parziale indulgenza mi sembra difficilmente accettabile da parte della collettività.
Non dimentichiamo che il crimine turba profondamente non solo la vittima, ma anche i suoi congiunti e l'intera comunità perché il crimine è l'espressione del trionfo seppur momentaneo della violenza. Quindi, l'indulgenza a priori è difficilmente accettabile. A corollario, va però subito detto che al rigore deve accompagnarsi un'attenzione al comportamento che il condannato terrà in seguito.
Il suo libro continua a suscitare molto interesse...
L'accoglienza che ha avuto questo libro mi ha in parte sorpreso. Forse perché non è una storia ma una non-storia: ha toccato delle corde che hanno messo in movimento il meccanismo del passaparola. Immagino che le persone manifestino una risposta positiva nel constatare che un uomo, pur autore di efferati delitti, abbia delle potenzialità positive: occorre però saperle suscitare.
Tutto sommato, questa è una storia di speranza pur in un contesto di disperazione.
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