Intervista a Jimmy Bangash, ex musulmano, britannico
di origini pakistane, gay dichiarato. Il nodo
dell’islamofobia, termine usato per zittire ogni dissenso
Abbandonare la fede islamica e manifestarlo apertamente. Una scelta fino a un decennio addietro considerata difficile o impossibile. Una percorso tuttora costellato da difficoltà e rischi per la propria incolumità e per la propria salute mentale. A parlarne Jimmy Bangash. Ex-musulmano, britannico di origini pakistane, gay dichiarato e life coach. Da Londra, capitale del regno della longeva Elisabetta, Paese dalle mille contraddizioni, dove coesistono da un lato i congedi di paternità, il matrimonio gay e le donne vescovo e dall’altro fenomeni di società parallele dove sempre più fortemente i dettami della sharia, la legge islamica, si sostituiscono concretamente al vissuto di tanti cittadini di fede islamica. In questo contesto, con sulle sfondo le lotte interne al governo sulle modalità di attuazione della Brexit, l’adesione al politicamente corretto e al rispetto delle religioni rende difficile la scelta, in apparenza banale, di lasciare la fede di origine.
Ci può raccontare la tua storia personale e il suo percorso spirituale?
Sono cresciuto in una famiglia pakistana attaccata alle tradizioni nella zona nord di Londra.
L’Islam è stato sempre presente nella mia vita da quando ne ho memoria. Dalle scritte in arabo sulle foto in casa fino al vedere i miei genitori e i fratelli maggiori pregare ogni giorno. Mentre crescevo mi è stato insegnato che l’Islam è la finale e perfetta rivelazione da Dio, che Maometto era il messaggero finale e che il nostro Libro Sacro, il Corano, in sé era un miracolo.
I cristiani e gli ebrei avevano adattato la loro religione e avevano perso il cammino allora Allah ha mandato a Maometto il messaggio finale per riportare l’umanità sulla retta via per la fine dei giorni. La mia religione era la verità e tutte le altre erano false. I cristiani e gli ebrei erano almeno “gente del libro” mentre gli induisti e i buddisti, la loro religione non aveva senso, era risibile e degna di presa in giro. Tutti quegli dei con teste di elefante e con tante braccia senza alcun fondamento nella realtà, al contrario di Allah.
Man mano che crescevo ho cominciato a farmi domande su cosa mi era stato insegnato. Il motivo principale era il trattamento delle donne nella mia comunità e a casa mia. Percepivo di vivere un mondo completamente diverso dalle mie sorelle e da mia madre. Cose che io e i miei fratelli potevamo fare erano espressamente proibite per le mie sorelle. Alle donne si richiedeva di essere ubbidienti, silenziose, di coprirsi e di non uscire. Mentre mio padre era rigido con i miei fratelli e con me non eravamo controllati alla stessa maniera e i nostri corpi non erano controllati allo stesso modo. Le donne dovevano rimanere caste, pure e immacolate. A meno che non fossero i loro mariti e se si fossero macchiate da un uomo questo era una vergogna per la nostra famiglia.
Inoltre mio padre era molto violento nei confronti di mia madre, e la nostra comunità era silenziosa riguardo a questo tipo di violenza.
Un giorno mi ricordo che discutendo con lui perché picchiava mia madre mi ha urlato che Allah gli dava il permesso di picchiare sua moglie. Non gli credevo ma mi ha mostrato il versetto 4:34 nel Corano che dice chiaramente che se tua moglie non ti ascolta la puoi picchiare.
Mia madre e le mie sorelle rifiutavano di ascoltare. Le ammiro per questo, hanno sofferto perché non ascoltavano. Senza volerlo mi hanno insegnato la sfida e la ribellione. Quando torni da scuola e tua mamma ha un occhio nero eppure non tace e non si sottomette, tra la tristezza e la pena che puoi provare, una parte di te la guarda con soggezione e ammirazione.
... [continua]
LEGGI L'INTERVISTA COMPLETA:
ABBONATI A POLIZIA E DEMOCRAZIA
per informazioni chiama il numero verde 800 483 328
oppure il numero 06 58331846
|