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Novembre-Dicembre/2018 - Interviste
Indagini
Il cadavere “parla”
di a cura di Marco Scipolo

Intervista a Matteo Borrini, docente di Antropologia forense
alla Liverpool John Moores University. E’ una scienza
che si occupa delle vittime andando a studiare la loro anatomia.
Le differenze con il genetista forense e il medico legale

In Italia l’antropologo forense è una figura, purtroppo, ancora poco considerata, nonostante il prezioso aiuto che può fornire alle indagini. Qual è il suo ruolo? E come interviene sui resti umani? Abbiamo approfondito il tema con uno dei più noti archeologi e antropologi forensi, l’italiano Matteo Borrini, professore associato di Antropologia forense alla Liverpool John Moores University, nel Regno Unito.

Professor Borrini, di cosa si occupa l’antropologia forense?

È importante chiarire subito che l’antropologia forense si occupa delle vittime. Spesso, quando si parla di antropologia e di scienze forensi, o di criminologia e di criminalistica, viene subito in mente l’antropologia criminale di Cesare Lombroso, con i limiti e anche alcuni meriti di questa figura che bisogna sempre interpretare alla luce di duecento anni di storia. Perché si fa presto a criticare qualcuno che ha elaborato quelle teorie quando oggi abbiamo progressi scientifici che ci permettono di vedere le cose in modo totalmente diverso.
L’antropologia criminale di Lombroso era un’antropologia che guardava al criminale ovvero al responsabile di un delitto, al reo, mentre l’antropologia forense, in linea di principio, è una scienza che a me piace definire “vittimologica” ovvero una scienza che si occupa delle vittime andando a studiare la loro anatomia. Quindi, da un certo punto di vista, non sarebbe neanche sbagliato chiamare l’antropologia forense “anatomia forense”, nel senso che noi andiamo ad analizzare lo scheletro di un individuo per conferirgli un’identità. Questi soggetti possono essere vittima di reato: il loro corpo viene trovato in uno stato più o meno scheletrizzato o decomposto e noi siamo portati a confrontarci con la scena dall’esigenza di dare a questo individuo un nome e un cognome.
Il nostro lavoro non si limita a questo, perché agendo in sincronia e in collaborazione con il medico legale possiamo offrire delle risposte per quanto riguarda il tempo trascorso dal decesso e anche per quanto concerne la causa e le modalità di morte. Possiamo cercare di capire – studiando i traumi dal punto di vista scheletrico – se l’individuo è stato vittima di un incidente, di una morte naturale, o di un omicidio.

L’antropologo forense quale tipo di apporto può dare, quindi, alle Forze dell’ordine, all’autorità giudiziaria e, più in generale, ai giuristi?
L’antropologia forense va ad applicare le conoscenze di tipo anatomo-biologico e fisiologico al corpo della vittima. Ci basiamo su scienze di tutto rispetto, dall’anatomia alla biologia. Noi andiamo a dare un apporto assolutamente scientifico. Possiamo identificare un individuo, oltre ogni ragionevole dubbio, attraverso lo studio scheletrico. L’antropologia si occupa anche, in fusione con un’altra disciplina chiamata “archeologia forense”, delle tecniche di ricerca e recupero del corpo di queste vittime.
Ci sono casi giudiziari molto recenti, dal “caso Yara” al “caso Roberta Ragusa”, dove il corpo doveva essere trovato (e in alcuni casi non è ancora stato individuato), nei quali l’antropologo forense può essere chiamato anche ad aiutare nelle fasi di ricerca del cadavere; e quando il luogo di occultamento viene individuato allora egli agisce con queste tecniche di scavo stratigrafico, ricostruendo la scena del crimine. Queste tecniche vengono applicate da parte delle forze investigative anche nei casi di disastri di massa dove, in un unico momento, molto rapido, si presentano all’unisono tutte queste problematiche. Pensiamo a un terremoto, a un attentato terroristico, a un evento calamitoso. Noi siamo chiamati ad andare a cercare i corpi, magari occultati dalle macerie crollate, dilaniati dalle lamiere dell’aereo esploso. Corpi deterioratisi molto rapidamente. Quindi, dobbiamo identificare anche i singoli frammenti pertinenti ai vari individui presenti sulla scena.
Un caso eclatante, per dimostrare a livello internazionale quanto importante sia l’applicazione delle tecniche di archeologia e antropologia forense, è quello dell’11 settembre 2001, uno scenario complessissimo, drammatico, con implicazioni notevoli riguardanti la sicurezza nazionale. Le forze investigative americane non ci hanno pensato due volte a chiamare anche gli archeologi e gli antropologi forensi, che nel nostro Paese spesso vengono visti, invece, come figure molto secondarie, quasi fantasiose, quasi da telefilm.
In Italia si preferisce lasciare la parola solo agli esperti tradizionali, ma così si perde moltissimo, e questo ce lo insegnano i contesti internazionali.In Italia l’antropologo forense è una figura, purtroppo, ancora poco considerata, nonostante il prezioso aiuto che può fornire alle indagini. Qual è il suo ruolo? E come interviene sui resti umani? Abbiamo approfondito il tema con uno dei più noti archeologi e antropologi forensi, l’italiano Matteo Borrini, professore associato di Antropologia forense alla Liverpool John Moores University, nel Regno Unito.

Professor Borrini, di cosa si occupa l’antropologia forense?

È importante chiarire subito che l’antropologia forense si occupa delle vittime. Spesso, quando si parla di antropologia e di scienze forensi, o di criminologia e di criminalistica, viene subito in mente l’antropologia criminale di Cesare Lombroso, con i limiti e anche alcuni meriti di questa figura che bisogna sempre interpretare alla luce di duecento anni di storia. Perché si fa presto a criticare qualcuno che ha elaborato quelle teorie quando oggi abbiamo progressi scientifici che ci permettono di vedere le cose in modo totalmente diverso.
L’antropologia criminale di Lombroso era un’antropologia che guardava al criminale ovvero al responsabile di un delitto, al reo, mentre l’antropologia forense, in linea di principio, è una scienza che a me piace definire “vittimologica” ovvero una scienza che si occupa delle vittime andando a studiare la loro anatomia. Quindi, da un certo punto di vista, non sarebbe neanche sbagliato chiamare l’antropologia forense “anatomia forense”, nel senso che noi andiamo ad analizzare lo scheletro di un individuo per conferirgli un’identità. Questi soggetti possono essere vittima di reato: il loro corpo viene trovato in uno stato più o meno scheletrizzato o decomposto e noi siamo portati a confrontarci con la scena dall’esigenza di dare a questo individuo un nome e un cognome.
Il nostro lavoro non si limita a questo, perché agendo in sincronia e in collaborazione con il medico legale possiamo offrire delle risposte per quanto riguarda il tempo trascorso dal decesso e anche per quanto concerne la causa e le modalità di morte. Possiamo cercare di capire – studiando i traumi dal punto di vista scheletrico – se l’individuo è stato vittima di un incidente, di una morte naturale, o di un omicidio.

L’antropologo forense quale tipo di apporto può dare, quindi, alle Forze dell’ordine, all’autorità giudiziaria e, più in generale, ai giuristi?
L’antropologia forense va ad applicare le conoscenze di tipo anatomo-biologico e fisiologico al corpo della vittima. Ci basiamo su scienze di tutto rispetto, dall’anatomia alla biologia. Noi andiamo a dare un apporto assolutamente scientifico. Possiamo identificare un individuo, oltre ogni ragionevole dubbio, attraverso lo studio scheletrico. L’antropologia si occupa anche, in fusione con un’altra disciplina chiamata “archeologia forense”, delle tecniche di ricerca e recupero del corpo di queste vittime.
Ci sono casi giudiziari molto recenti, dal “caso Yara” al “caso Roberta Ragusa”, dove il corpo doveva essere trovato (e in alcuni casi non è ancora stato individuato), nei quali l’antropologo forense può essere chiamato anche ad aiutare nelle fasi di ricerca del cadavere; e quando il luogo di occultamento viene individuato allora egli agisce con queste tecniche di scavo stratigrafico, ricostruendo la scena del crimine. Queste tecniche vengono applicate da parte delle forze investigative anche nei casi di disastri di massa dove, in un unico momento, molto rapido, si presentano all’unisono tutte queste problematiche. Pensiamo a un terremoto, a un attentato terroristico, a un evento calamitoso. Noi siamo chiamati ad andare a cercare i corpi, magari occultati dalle macerie crollate, dilaniati dalle lamiere dell’aereo esploso. Corpi deterioratisi molto rapidamente. Quindi, dobbiamo identificare anche i singoli frammenti pertinenti ai vari individui presenti sulla scena.
Un caso eclatante, per dimostrare a livello internazionale quanto importante sia l’applicazione delle tecniche di archeologia e antropologia forense, è quello dell’11 settembre 2001, uno scenario complessissimo, drammatico, con implicazioni notevoli riguardanti la sicurezza nazionale. Le forze investigative americane non ci hanno pensato due volte a chiamare anche gli archeologi e gli antropologi forensi, che nel nostro Paese spesso vengono visti, invece, come figure molto secondarie, quasi fantasiose, quasi da telefilm.
In Italia si preferisce lasciare la parola solo agli esperti tradizionali, ma così si perde moltissimo, e questo ce lo insegnano i contesti internazionali.... [continua]

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