Dopo cinquant’anni, un’inchiesta di Cesare Vanzella tenta di ricostruire i momenti in cui perse la vita il giovane poliziotto Antonio Annarumma
E' un giorno d’autunno inoltrato, ma non di un autunno qualunque. Il 19 novembre 1969 cade in pieno autunno caldo. Giovani poliziotti (anzi, guardie di pubblica sicurezza), perlopiù del sud; sciopero generale per la casa indetto dalle confederazioni sindacali; cortei di manifestanti davanti al Lirico di Milano; camionette e mezzi della polizia. La giornata non preoccupa particolarmente, ma il clima è comunque teso. E scoppiano gli scontri.
Questo lo scenario, quel giorno, a Milano. La dinamica di quei concitati momenti non è mai stata del tutto chiarita. L’unica certezza è la morte di un giovane poliziotto del sud, Antonio Annarumma: …emerge ancora oggi una grande confusione frutto anche delle ambiguità e degli inciampi che le istituzioni hanno voluto disseminare. Sono parole pesanti quelle di Cesare Vanzella, che a cinquant’anni da quel tragico evento, ha condotto un’accurata indagine giornalistica, per cercare di capire, di fare chiarezza e di restituire un po’ di giustizia a quel ragazzo in divisa di Monteforte Irpino, troppo presto dimenticato.
Ambiguità e inciampi istituzionali, dunque. Nemmeno il processo-lampo aiuta a far luce sulla vicenda: un festival dei non ricordo – lo definisce efficacemente Vanzella – un processo tutto politico che finisce senza vincitori né vinti. La verità giudiziaria è che Annarumma fu assassinato. Ma il quadro manca di alcuni fondamentali tasselli. Una cartella dell’autopsia che scompare e riappare. Alcuni video degli scontri di quel giorno, spariti. Le ritrattazioni, a distanza di anni, del primario di chirurgia d’urgenza sulle cause della morte di Annarumma. Il tubo Innocenti, che avrebbe colpito l’agente, mai ritrovato.
Non fa sconti a nessuno, Vanzella: A essere magnanimi, tutte le parti hanno raccontato mezze verità utili solo a giustificare i propri errori, le proprie manchevolezze. Insomma, un modus operandi tipico degli anni a seguire quando con maggiore veemenza, alti nel cielo svett[eranno] i depistaggi e la strategia della tensione.
Cesare Vanzella, giornalista professionista, ha collaborato con numerose testate, lavorando per lunghi anni all’Agenzia Giornalistica Italia. Già direttore di “Polizia e Democrazia”, fa parte della giuria del Premio Fedeli per la narrativa poliziesca.
Perché, dopo 50 anni, tornare sul caso Annarumma?
La morte dell’agente Antonio Annarumma ha accompagnato i miei primi anni di interesse per la politica. Nel 1969 ero ancora molto giovane ma ricordo un filmato che veniva trasmesso dal Telegiornale Rai, che non sono mai più riuscito a trovare, in cui si vedevano gipponi e camionette della Polizia intente in caroselli per disperdere la folla in via Larga. Veniva addirittura indicato il gippone di Annarumma con il classico circoletto bianco (la tivù non era ancora a colori). A commento, il giornalista raccontava che l’agente era stato colpito con un segnale stradale. La descrizione mi era da subito parsa strana. Ogni tanto questa storia mi tornava alla mente finché quest’anno ho conosciuto un poliziotto che aveva frequentato con lui un corso di Polizia. Da qui è stato un attimo pensare a un libro sulla storia del povero agente venuto dall’Irpinia per morire a 22 anni a Milano.
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