La nullità o annullamento del contratto di lavoro, ai sensi dell’art.2126 c.c., non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione delle norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione.
Di qui l’introduzione dell’istituto della prestazione di fatto con violazione di legge tendente a tutelare il lavoratore per il caso di invalidità del contratto.
Le cause di nullità e annullabilità del contratto di lavoro sono in via di principio le medesime che possono viziare un comune contratto: contrasto con norme imperative, mancanza di uno degli elementi essenziali del contratto, illiceità del motivo comune ad entrambe le parti, illiceità , impossibilità , indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto; incapacità legale o naturale di una delle parti, vizio della volontà. Esse possono essere fatte valere nei medesimi modi e termini e con gli stessi effetti con cui possono essere azionate in relazione a un comune contratto.
La peculiare disciplina dettata dall’art.2126 c.c. fa comunque produrre al contratto invalido i suoi effetti per il in cui ha avuto esecuzione. L’equiparazione del contratto invalido al valido è però limitata agli effetti suesposti. Il lavoratore pertanto non potrebbe invocare il citato art.2126 per pretendere la prosecuzione di un rapporto contrattuale nullo. Nè tale norma è invocabile allorché la prestazione lavorativa sia stata effettuata contro la volontà effettiva del datore di lavoro.
La disciplina illustrata non trova peraltro applicazione per il caso in cui la nullità derivi da illiceità della causa e dell’oggetto, a meno che il lavoro sia stato prestato con violazione delle norme poste a tutela del lavoratore, nel qual caso quest’ultimo ha comunque diritto alla retribuzione.
Riguardo la disciplina dettata dall’art. 2126, la Corte Costituzionale ha precisato che l’illiceità della causa che esclude il diritto alla retribuzione del lavoratore non va identificata con l’inosservanza dei principi di stretta legalità ma con la violazione delle norme che costituiscono il fondamento basilare del nostro ordinamento pubblicistico: va ritenuta sussistente nell’ipotesi in cui l’attività lavorativa sia intrinsecamente illecità o in cui il negozio sia preordinato ad ulteriori finalità vietate dall’ordinamento.
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