Mala tempora currunt. E, tanto per cambiare, i fatti e le vicende, preoccupanti, sgradevoli, indecorosi, o chiaramente scandalosi, sono accompagnati da una confusione verbale e sostanziale che potrebbe apparire un’accorta strategia di depistaggio (“Meno ci si capisce e meglio è!”) se non fosse evidente una generale mancanza di sicuri punti di riferimento.
Non sappiamo neppure se siamo o no in guerra, e non lo sappiamo perché chi dovrebbe informarci evita di farlo in maniera esplicita, chiara. Eppure dall’inizio della rivolta in Libia ci eravamo schierati contro la sanguinosa repressione effettuata da Gheddafi, in una coalizione che aveva ottenuto il nulla osta dell’Onu. Certo, con un comprensibile imbarazzo, avendo i nostri governanti – dal premier in giù – intrattenuto con il tiranno di Tripoli, fino alla vigilia del movimento popolare, rapporti più che amichevoli. Però, pur aderendo all’offensiva anti Gheddafi abbiamo suggerito che a combattere seriamente fossero gli altri, mentre noi ci saremmo limitati a compiti marginali, tanto che alla lunga dal comando Nato ci è giunta la cortese richiesta di far intervenire anche i nostri Tornado, Amx e AV-8B con bombe e missili contro le milizie del raiss. Significativa una dichiarazione in proposito del ministro della Difesa Ignazio La Russa. “Abbiamo sempre seguito la linea della prudenza e della moderazione. E continueremo a farlo”.
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Come previsto, la rivolta libica ha innestato un afflusso di immigrati verso le coste italiane, costituito in massima parte da uomini e donne provenienti dai Paesi africani più colpiti da guerre, pulizie etniche e religiose, fame, arrivati in Libia con l’ansia di attraversare il Mediterraneo, e lì rinchiusi in lager nei quali era praticata ogni tipo di violenza. Queste decine di migliaia di disgraziati era utilizzata dal colonnello come strumento di ricatto nei confronti dell’Europa, riservandosi la possibilità di trattenerli, o di metterli nelle mani dei trafficanti per lasciarli raggiungere l’Europa.
Quello che invece non era previsto era l’arrivo a Lampedusa di ventiduemila tunisini che abbandonavano il loro Paese, che dopo la caduta della dittatura di Ben Ali (un altro nostro amico) aveva ottenuto la libertà ma si trovava in condizioni economiche disastrose. Gli immigrati tunisini, tutti giovani, molti in possesso di titoli di studio superiore, non fuggivano da guerre o da altre calamità, volevano semplicemente andare in un Paese dove potessero cercare un lavoro. In Italia? Lampedusa è a un passo dalla Tunisia, e quindi logicamente vi si erano diretti, ma i giovani tunisini avevano come meta soprattutto la Francia (per motivi di lingua, e per raggiungere parenti lì residenti), e la Germania. Nel nostro Paese non erano attirati nemmeno dalla comunità dei marittimi tunisini di Mazara del Vallo, del resto scarsamente disponibile ad accoglierli. I ventiduemila tunisini hanno provocato a Lampedusa una situazione talmente drammatica che Silvio Berlusconi ha ritenuto necessario recarsi nell’isola, promettendo uno sgombero nel giro di due o tre giorni, e – da “lampedusano”, per l’acquisto, poi “semi sospeso”, di una villa -, un rilancio turistico, con tinteggiatura delle case, casinò, campi da golf, e la proposta del premio Nobel per la pace. Poi la missione del premier a Tunisi, accompagnato da Roberto Maroni e da Tarak Ben Ammar, produttore e finanziere franco-tunisino, socio di Mediaset, che sembra sostituire l’assente ministro degli Esteri Franco Frattini. A Tunisi il nuovo premier Beji Caid Essebsi aveva dichiarato che il ritorno in patria dei ventiduemila, eventualmente espulsi, avrebbe provocato qualcosa come una seconda rivolta. Unica prospettiva verosimile rimaneva impedire, o almeno ostacolare, altre partenze, grazie anche al contributo italiano di mezzi, terrestri e marittimi. Un accordo simile a quello delle sei motovedette date a Gheddafi, una delle quali si era distinta lo scorso anno inseguendo e mitragliando un peschereccio italiano.
Visto che i giovani tunisini non potevano essere rimandati indietro, registrato il fiero sdegno di Umberto Bossi (“Foera di ball !”, “Chiudere il rubinetto e vuotare la vasca”, e il dito medio puntato in alto), si è pensato di distribuire gli scomodi ospiti in tendopoli e altri centri di accoglienza – quasi tutti nel Meridione – , fornendo loro un permesso di soggiorno temporaneo di sei mesi, teoricamente valido per spostarsi in Europa nell’area Schengen. Teoricamente, perché sia la Francia che la Germania si sono affrettate a ricordare al governo italiano che, secondo le regole del trattato, quel pezzo di carta non era sufficiente per varcare le loro frontiere. E dopo le prime indignate proteste, abbiamo ripiegato su un accordo di maniera sulla sorveglianza delle coste tunisine.
Nel frattempo prosegue l’esodo, silenzioso non avendo governi che vogliano rappresentarli, dei dannati della terra reduci dai campi libici. Dando fondo alle ultime risorse della loro miseria si assiepano su quei barconi che – come sappiamo, quando lo sappiamo – a volte affondano.
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Di tutto questo non si è discusso molto in un Parlamento occupato da altre incombenze, oltre che dai passaggi di deputati e senatori attraverso i diversi schieramenti, usando a volte l’articolo 67 della Costituzione (“senza vincolo di mandato”) come un alibi per operazioni eticamente dubbie. Con alcune estemporanee proposte, come quella presentata in Senato per l’abolizione del divieto di ricostituzione del partito fascista, e l’altra sottoscritta dai deputati della Lega per la creazione di eserciti regionali, in seguito rinviata a un “futuro migliore”. Degno di nota l’annuncio di Luca Cordero di Montezemolo di voler “scendere” nel campo della politica. Magari con l’augurio che questa decisione dell’illustre imprenditore non risponda alla logica del “chiodo scaccia chiodo”.
Infine, sono 30 anni dalla riforma della polizia, una delle più importanti per la nostra democrazia. I principali protagonisti ne furono gli stessi poliziotti, i quali, in tempi molto difficili, suscitarono un ampio fronte solidale attorno alle loro idee. Sì, erano altri tempi.
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