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Gennaio-Febbraio/2012 - Editoriale
direttore@poliziaedemocrazia.it
Crisi e ambigui retroscena
di Paolo Pozzesi

«Sacrifici dolorosi ma necessari», ha avvertito Mario Monti presentando il programma del suo Governo. Un esecutivo che potremmo definire di salute pubblica. Tecnico o politico? Diremmo entrambe le definizioni, come del resto dovrebbe essere ogni governo efficiente. Nel senso che non dovrebbe bastare il fatto di essere designato dal voto per dirigere il governo di un Paese, ma sarebbe opportuno che a questo si aggiungesse una specifica competenza. E’ vero che la volontà popolare è il potere supremo, ma la gestione degli affari pubblici richiede una adeguata professionalità. In alcuni Paesi (come la Francia) esistono grandi scuole che preparano alla amministrazione, non solo economica, della res publica. In Italia no (le università sono un’altra realtà). E del resto da noi neppure la burocrazia poggia su una tradizione sicura e regole efficaci. Tornando alla manovra – la prima di altre già prevedibili – ci si chiede da quale lato la si debba giudicare.
Stando ad autorevoli dichiarazioni eravamo sull’orlo del baratro e non lo sapevamo. Vale a dire che chi avrebbe avuto il dovere di avvertirci, aveva trascurato di farlo. Anzi, si era affermato che la situazione era sotto controllo e che gli italiani se la scialavano tra vacanze e cene al ristorante. Invece eravamo imbarcati su un titanic che stava per scontrarsi con l’iceberg che lo avrebbe colato a picco. In sostanza, il fallimento del Paese.
La manovra si inserisce in quel conflitto planetario che si chiama “mercato globale”. In realtà, si tratta di entità diverse, che agiscono sia isolatamente, sia in manipoli momentaneamente aggregati, e colpiscono all’improvviso facendo poi perdere le loro tracce. Gli effetti dei loro attacchi, come ben sappiamo, sono devastanti. E non è sempre chiaro in che modo sia possibile difendersi. La manovra, appunto, dovrebbe essere uno strumento di difesa, atta a difendersi ma anche a dimostrare di essere forti. E’ quello che viene chiamato “credibilità”. Così la manovra ha il fine di farci apparire credibili, seriamente intenzionati a mantenere salda la nostra economia. Che questo venga realizzato rispettando un tasso accettabile di equità, è un altro discorso.
L’Europa, e l’euro, si sono rivelate dei punti d’appoggio fondamentali. Malgrado i dissapori spesso affioranti, gli atteggiamenti di supponenza da parte di alcuni e le critiche severe che ci sono state rivolte. Non sempre del tutto giustificate, perché le responsabilità di questa drammatica situazione andrebbero seriamente distribuite.
Del resto, nell’Unione Europea alcuni nodi importanti sono venuti al pettine dopo anni di ambigui comportamenti.
In primo luogo quello che riguarda la Gran Bretagna, una grande nazione ricca di fermenti politici, sociali, culturali che però difficilmente può integrarsi in una federazione di Stati quale dovrebbe essere l’Unione Europea, per motivi che sarebbe lungo elencare, dovuti anche ai suoi rapporti tradizionali, storici con gli altri Paesi anglofoni.
Comunque, la prospettiva di un Europa unita, non è mai veramente piaciuta ai governanti di Londra, fossero conservatori o laburisti, ma una volta realizzatosi il progetto, ci si era decisi ad aderirvi. Per controllarlo, per minarlo dall’interno? Qualcuno, da tempo, lo ha supposto. E oggi, in piena guerra dei mercati, emerge la certezza che alcuni assalti speculativi contro i Paesi della Ue sono partiti proprio dalla City. Londra ha sempre rifiutato di aderire alla moneta unica. E allora? Sterlina contro euro? Sta di fatto che il premier Cameron ha sonoramente difeso a Bruxelles la sovranità britannica rifiutando di firmare il controllo dell’Eu su misure fiscali e bilancio, decisione che equivale se non a una esplicita rottura, però di certo a una forma di isolamento. Una posizione che, dicono i sondaggi, sarebbe gradita dalla maggioranza dei britannici.

***
Il parziale distacco della Gran Bretagna accentua il predominio nella Ue dell’asse franco-tedesco. Ammesso che questa “entente cordiale” resista alle già affioranti divergenze. In caso contrario, è molto probabile che il timone dell’Unione Europea resti in mano germanica. Come si ripete con timorosa speranza, “saremo tutti un po’ tedeschi”. Se questo sia un bene o no, si vedrà. Per noi italiani potrebbe risultare vantaggioso nel senso di acquisire una dose maggiore di serietà.
Ovviamente sono dissertazioni abbastanza astratte e basate su ipotesi e previsioni molto incerte, ma non può essere altrimenti in questi tempi di navigazione a vista.
Ma che cos’è veramente questa crisi? Un’infezione finanziaria che viene da lontano, come è stata definita? Una sorta di epidemia, al pari di una “asiatica”? E già il richiamo sanitario ha un suono allusivo. Come dire: non è che in qualche modo c’entra il “pericolo giallo”? Però si afferma che tutto ha avuto inizio negli Stati Uniti, e l’America non è la Cina. Anche se la Cina “comunista” è più capitalista (e ricca) dell’America.
Tornando al concreto, il termine “finanziaria” resta comunque appropriato. Dobbiamo ormai renderci conto che a dettare legge è la finanza, vale a dire l’economia virtuale, quella che non produce nulla ma si limita a speculare. Di qui gli alti e bassi della borse e gli interventi delle agenzie di rating, organismi dai comportamenti spesso ambigui i cui giudizi hanno però il peso di sentenze senza appello. E lo spread, il maledetto differenziale che sembra perseguitare in particolare noi italiani.

***
La crisi è globale, ma è logico che a toccarci siano i modi in cui viene vissuta nel nostro Paese. Male, per alcuni e per non pochi malissimo. Precisiamo che a suscitare malessere e scontento si mescolano gli effetti della crisi e gli strumenti usati per affrontarla. A fianco di chi perde il posto in età matura, a causa della crisi, e non può accedere alla pensione perché glielo impediscono i vincoli della manovra, abbiamo i giovani che il lavoro non lo hanno mai avuto e vedono la pensione come un lontano e incerto miraggio. Ed è solo un esempio del malessere. Del resto per rimanere ai casi nostri, i problemi sono vari. E li conosciamo da tempo, anche se spesso si è finto di ignorarli. Abbiamo un elevatissimo debito pubblico e il made in Italy segna il passo, anzi indietreggia. E’ lo spettro della decrescita, anche se le idee su come si dovrebbe impostare una auspicata crescita non sono chiarissime. Mentre qualcosa di concreto, e rapido, si potrebbe realizzare sul fronte della legalità. Ci riferiamo alla piaga della corruzione, che inquina fortemente la spesa pubblica, e alla criminalità organizzata. La prima può essere eliminata con un controllo minuzioso e costante unito alla messa al bando all’interno delle forze politiche di qualsiasi forma di spirito clientelare.
Quanto alle mafie…che dire? Il più delle volte l’argomento viene sottaciuto, o appena sfiorato, quasi si trattasse di un aspetto secondario. Se proprio se ne deve parlare, si vantano i successi conseguiti con l’arresto di boss e latitanti, fingendo di ignorare che queste lodevoli operazioni, dovute unicamente alla professionalità e agli sforzi di magistrati e forze dell’ordine, colpiscono solo la parte “militare” delle mafie, quella più facilmente rinnovabile. Restano intatti i “piani alti”, quelli economici e finanziari fatti di connivenze, di alleanze politiche e imprenditoriali, di partecipazioni indirette ai traffici della criminalità organizzata. Un sistema collaudato, ormai espanso in tutto il Paese. Anche quando si sente da più parti invocare la lotta all’evasione fiscale, ci si dimentica che nel computo del mancato introito nella casse dello Stato, l’evasione non è fatta solo e soltanto di furbetti che guidano Suv e dimenticano di fare la dichiarazione fiscale. L’evasione fiscale significa anche lavoro nero e molto altro di ricongiungibile proprio alle mafie.

***
Con il 2011 si sono concluse le celebrazioni del 150° dell’Unità nazionale. Un evento che ha assunto un particolare significato per dichiarata volontà del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E non si è trattato di una ritualità puramente formale anche a causa delle contestazioni di chi fa di un federalismo secessionista (due termini in linea di logica contraddittori) la sua prioritaria linea politica.
L’Italia è unita. Su questo non dovrebbero esservi dubbi. Il punto ancora da chiarire è: unita per fare cosa?
Uscire dalla crisi è solo il primo imperativo. Potremo farlo solo con il concorso di tutti, nel Paese e in Europa, ma nel contempo è indispensabile studiare e mettere a punto un nuovo modello sociale ed economico. Quello attuale è diventato qualcosa di insostenibile per la grande maggioranza dei cittadini. E’ un tema che va tenuto ben aperto, nell’interesse comune.

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