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Ottobre/2019 - Lettere
SI PUÒ MORIRE A TRENT’ANNI?
di Fabrizio Maniago

Si può morire a trent’anni?
Condivido queste riflessioni nella speranza possano servire come spunto, consapevole che l’unico luogo deputato a ragionare ed a trovare un necessario punto di equilibrio è il Parlamento, luogo in cui le idee si vestono di Diritto.
Ognuno di noi reagisce a suo modo agli eventi, il mio è questo; cercare di smuovere le coscienze attraverso un percorso argomentato, confutabile quanto si vuole, ma che almeno imposti un dibattito, una riflessione su un tema che vede giorno dopo giorno i servitori dello Stato soccombere a scapito di una società che abbiamo giurato di difendere, ma che non ci permette di farlo.
Sono solo alcuni pensieri che spero possano alimentare il dibattito, nella speranza si possa muovere qualcosa perché mi pare che oggi si sia perso completamente il senso della misura.
Quanto vale la vita di una persona? Quali sono gli strumenti per tutelarla? Quali gli strumenti per rendere sicuro il lavoro di chi deve tutelare, per missione istituzionale, la collettività?
Questi sono solo alcuni interrogativi che mi pongo. Mentre il dolore persiste e lacera ancora tutti i nostri cuori e le nostre anime, mentre due giovani vite ci sono state rubate senza un perché, mentre l’universo mondo si interroga sulle cause e cerca capri espiatori ovunque, io ritengo che, dopo il momento di massimo rispetto dovuto ai nostri compianti fratelli di giubba che nessuno potrà restituirci, alcune riflessioni siano doverose perché fatti così non abbiano a verificarsi ancora: ognuno di noi sa bene, in cuor suo, che questo è uno dei rischi del mestiere. Che poi non è un mestiere ma una missione: non si fa per i soldi o per la gloria ma perché dentro ognuno di noi c’è il credo di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, del bene e del male. Scegliendo questa professione altro non abbiamo fatto che palesare al mondo da che parte stiamo.
“Purtroppo” siamo cresciuti con determinati valori, dedicando la vita agli altri. Tali valori sono il retaggio di una formazione vetero cattolica che, volenti o nolenti, la maggior parte di noi ha mutuato dal catechismo delle scuole elementari e delle medie inferiori. Sono gli anni della comunione, della cresima, delle frequentazioni degli oratori e delle chiese. Sono gli anni in cui si impara il profondo rispetto della vita e dell’altro.
Proprio questi valori abbiamo introiettato fin dall’infanzia, unitamente alla formazione ricevuta durante il corso base alla Scuola Allievi Agenti di Polizia che, laicamente, insegna il rispetto dei diritti e dei valori costituzionali; di cui la nostra Carta Fondamentale è intrisa: solidarietà, uguaglianza, massimo rispetto per il bene supremo ovvero la vita. Due angeli in divisa svolgevano il loro compito con passione e con grande senso di umanità.
Dall’altro lato della barricata sempre più spesso dobbiamo fare i conti con un sentire diverso che non fa parte del nostro vissuto e del nostro dna: un sentire che non dà valore alla vita come noi la intendiamo e che toglierla in modo brutale ed efferato fa parte di un bagaglio acquisito attraverso altri percorsi, fatti di violenza inaudita, prevaricazioni, soprusi, povertà economica, culturale e guerre.
Il più grande problema è proprio questo: vivere in un Paese, dove le regole ed il rispetto per il prossimo mal si coniugano con quella che è divenuta la realtà del quotidiano e che è costata la vita a chi la vita altrui ha sempre difeso ad ogni costo, pagando il tributo più alto in assoluto.
Un tempo il delinquente incallito aveva rispetto per il lavoro del poliziotto e nel vecchio gioco del guardia e ladri, quando veniva acciuffato deponeva le armi (in senso metaforico) perché queste erano le regole di base universalmente accettate.
Oggi questo paradigma non esiste più e le regole di ingaggio invece vanno da tutt’altra parte. Uno scollamento totale tra realtà e regole in cui il poliziotto è un nemico da abbattere sempre e comunque, qualcosa da distruggere, da annientare con qualunque mezzo.
Con questo non si vuol certo chiedere di avere le mani libere al fuori di qualunque regola, di qualsivoglia diritto, morale o etica ma di certo va ripensato in modo radicale l’approccio.
Oggi più che mai la Polizia ha le mani legate e questo non è solo il titolo di un film del 1975 di Luciano Ercoli ma la cruda constatazione di una relatà fattuale in cui, ogni giorno, i miracoli non bastano più a salvare la pelle al collega.
Oggi il poliziotto che interviene in un qualsiasi contesto difficile non pensa in prima battuta alla sicurezza personale ma ai telefonini, alle videocamere, all’eventuale reprimenda per una foto magari fatta ad arte che restituisce una realtà distorta, strumentale per farlo passare per ciò che non è.
Il primo pensiero declina la tutela giuridica, la possibilità che il nostro operato venga messo sotto la lente da chiunque per nulla, in modo strumentale, stigmatizzando qualunque azione posta in essere con la risolutezza che il caso richiede.
Oggi il poliziotto che interviene, prima ancora di arrivare sul posto mentre corre in soccorso alle persone per bene passa in rassegna le cinque responsabilità che gravano su di lui: penale, civile, amministrativa, contabile e disciplinare. Cinque spade di damocle, appese ad un sottile crine di cavallo, pendono sulla testa del collega che si accinge ad intervenire in un contesto già di per se border line.
Questo è ciò che oggi pensa chi si appresta ad intervenire in un contesto ove la situazione è già bella e degenerata. E se gli metto le manette in assenza di una situazione conclamata di violenza ma solo potenziale sarò tacciato di essere brutale? Se chiudo il sospettato in una sala, nelle more della procedura di identificazione, controllo, fermo perché devo compilare un milione di atti stando attento a non sbagliare nomi, date, indizizzi numeri dei documenti, scadenze (invito chiunque a leggere i dati di una delle nuove carte d’identità ministeriali) rischio di essere incriminato per sequestro di persona? Se metto un potenziale ladro che pur non ha ancora dato in escandescenze ma potrebbe farlo in qualunque momento seduto su una sedia ammanettato, rischio di essere incriminato per tortura? Per brutalità?
La sicurezza personale del poliziotto purtroppo oggi viene alla fine di questo percorso mentale che è il portato di una deriva che ha imboccato la nostra società. Una strada che deve essere ripensata e che può – a mio sommesso avviso - trovare dei correttivi appropriati all’interno della Costituzione stessa, fatta di check and balancies.
Posto che nessuno ha la facoltà e la capacità sovrannaturale di individuare quando un determinato soggetto potrebbe dare in escandescenze, allora si pone un problema di prevenzione reale, che oggi non può più essere pretermesso nelle scelte politiche sulla sicurezza degli operatori di Polizia.
Sul legislatore grava la grandissima responsabilità e il dovere di impostare una seria riflessione su questi fatti e sul mutamento delle condizioni e dei valori di una parte sempre più ampia della società.
Sono all’ordine del giorno gli attacchi diretti alle forze dell’Ordine. Il bilancio consuntivo dei feriti gravi è sempre più simile ad un bollettino di guerra. E a farne le spese siamo noi.
La sicurezza del poliziotto deve occupare oggi, nell’agenda di Governo, il primo posto e non può essere recessiva ad esigenze di libertà assoluta verso chi disprezza la vita altrui in maniera altrettanto assoluta e le assegna un valore pari a zero.
Non potremo combattere ad armi pari la battaglia bene/male se partiamo da considerazioni cosi antitetiche. Perdiamo in partenza. Il legisaltore deve tener conto di questi cambiamenti epocali anche nella cultura della società contemporanea o per meglio dire di una parte della società - quella criminale - con cui il poliziotto viene necessariamente a contatto quotidiano per “dovere d’Ufficio” al fine di tutelare il cittadino per bene, per garantire la pace sociale.
E’ quindi doveroso fornire al poliziotto dei nuovi strumenti operativi bilanciati in modo che possa espletare la sua missione nella massima sicurezza possibile.
Si potrebbero sondare e studiare alcuni ambiti del diritto penale, delle misure di prevenzione e del d.lgs 81/08 al fine di trovare degli spunti e delle soluzioni accettabili che riescano a contemperare le indiscutibili ed insopprimibili garanzie di uno Stato di Diritto con quelle altrettanto imprescindibili che declinano la tutela di chi opera sul campo.
Il codice penale ad esempio tutela taluni beni giuridici in cui, in determinate fattispecie incriminatrici il livello di protezione accordato viene anticipato rispetto alla concretizzazione dell’evento ed arretra alla messa in pericolo del bene oggetto della tutela. Perché quindi non mutuare questo paradigma anche alla sicurezza nei confronti dell’operatore di Polizia quando entra in contatto con soggetti che in potenza potrebbero – e sempre più speso accade – aggredirlo?
Mutatis mutandis le misure di prevenzione ante delictum o specialpreventive di carattere eminentemente amministrativo, nascono e si applicano dal 1865 anche a coloro i quali non hanno ancora commesso un reato ma sono per così dire sulla soglia. Orbene, posto che il poliziotto opera a contatto con tali tipologie di soggetti non si potrebbe pensare ad una misura capace di inibire, per quanto possibile, il pericolo nelle more della trattazione per il tempo strettamente necessario?
Infine, un addentellato normativo propedeutico alla tutela del poliziotto si rinviene nel Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Il lavoratore della sicurezza deve poter disporre di presìdi che evitino, per quanto possibile, il pericolo e questo è direttamente correlato non solo ai mezzi ma anche alle persone con le quali si viene a contatto. A tal proposito soccorre un interessante pronuncia del Supremo Consesso: Cassazione penale, Sez. IV - Sentenza n. 29728 del 14 giugno 2017 (u.p. 8 marzo 2017) - Pres. Izzo - Est. Gianniti - P.M. (Conf.) Cuomo - Ric. P. ‘‘Il capitale umano e la salute dei lavoratori sono la prima e più importante risorsa di qualsiasi impresa commerciale e della società intera; con la conseguenza che qualsiasi attività lavorativa che non si possa svolgere senza porre in serio pericolo la vita dei lavoratori, semplicemente non deve essere svolta o deve essere svolta in modo radicalmente differente’’.
Da quanto precede la stanza in cui ospitare temporaneamente un soggetto in attesa delle doverose verifiche e redazione atti deve essere confortevole ma sicura, meglio se con bagno interno integrato in inox senza orpelli di sorta. Non è pensabile lavorare al pc mentre un soggetto, magari privo dei freni inibitori perché ubriaco o peggio ancora sotto l’influsso di sostanze stupefacenti può in qualunque momento scagliarmi un oggetto in testa perché in preda a delle allucinazioni.
Le manette o fascette a fini precauzionali non devono essere viste come un abuso se finalizzate alla sicurezza dell’operatore che tratta con soggetti magari già attinti da provvedimenti, comminati per la loro comprovata violenza quand’anche allo stato della trattazione non si sia ancora manifestata ma che potrebbe avvenire in un qualunque momento, senza preavviso di sorta.
Un giubbino antiproiettile sottocamicia per ogni singolo operatore di volante in primis deve entrare a far parte del corredo in dotazione personale. Questi sono solo alcuni esempi di come già oggi si possa migliorare lo standard qualitativo di sicurezza per il poliziotto attraverso un minimo impegno di spesa per l’acquisto e qualche riga inserita dal legislatore all’interno delle cause di giustificazione o scriminanti ad esempio sull’uso cautelare delle fascette di contenimento nelle more di una doverosa procedura che le leggi impongono di attuare.
Queste brevi riflessioni non hanno alcuna pretesa se non quella di voler innescare un percorso di approfondimento nella ricerca di un punto di equilibrio tra libertà e sicurezza di chi opera.
Oggi l’effetto deterrente dell’uniforme è ridotto ai minimi termini così come lo sono le norme giuridiche di diritto positivo quali ad esempio gli artt. 336, 337 del CP tanto per citarne alcuni. La loro funzione generale specialpreventiva nell’odierna società è pressoché nulla e la prova provata sono le continue aggressioni che si verificano quotidianamente senza soluzione di continuità nei confronti dei colleghi.
L’intangibilità della divisa è un principio che deve essere riaffermato con forza non solo e non tanto per il poliziotto ma per la tutela stessa dello Stato di Diritto, della collettività intera e di tutti i consociati.
Pensare che il poliziotto in divisa sia un mero obiettivo su cui sfogare le proprie frustrazioni rende il paese insicuro e lo spinge verso il baratro.
Di tutto questo deve farsi carico il legislatore in quanto il poliziotto deve essere messo nelle condizioni di poter operare con margini di rischio sempre minori ove si può intervenire ed oggi ci sono di sicuro delle tecnologie reperibili e degli strumenti idonei.
Perché la vita del poliziotto non è meno importante della vita di chiunque altro. Perché nel 2019 non si può morire a trent’anni dentro una nostra struttura.
Fabrizio Maniago
* Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia
Segreteria provinciale di trieste

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