Il giuramento del governo, gli spari e un carabiniere
che cade a terra ferito. A impugnare la pistola, un uomo,
Luigi Preiti, che disse di «voler fare un gesto eclatante
in un giorno importante». Sullo sfondo, le tensioni
sociali che rischiano di esplodere sotto la spinta della crisi
economica. E una voce, quella di Martina Giangrande, figlia
del carabiniere colpito: «Puoi avere la rabbia ma mai a rivalersi
su qualcuno»
Ci sono luoghi che diventano familiari. Tuo malgrado. Posti in cui ricostruire la quotidianità. Non l’intimità domestica, quella no, ma almeno la routine dei gesti comuni. Un saluto; una visita; un pranzo insieme; lo scambio di due parole; la lettura dei quotidiani. E così per mesi, finché non si riapre la porta verso l’esterno.
Sono le giornate di chi è in riabilitazione, ospite di centri, talvolta d’eccellenza, il cui obiettivo è restituire le persone alla vita. Come nel caso di Giuseppe Giangrande, il brigadiere colpito lo scorso 28 aprile davanti a Palazzo Chigi. E’ in una struttura di Montecatone, sulle colline imolesi, con la figlia Martina che non lo molla un istante. «Che potevo fare – ci dice – lo lasciavo qui e continuavo a starmene a casa? Certo, so che tipo di lavoro rischioso fosse il suo, partiva spesso per l’estero e non lo vedevo per mesi, però lo faceva con amore e passione e ti aiutava ad accettarlo in maniera più positiva. Così faceva anche mamma», scomparsa appena tre mesi fa.
Una donna giovane, Martina, che non ci sta a cedere al rancore: «A che serve? Non mi risolve la situazione e allora penso: “perché sprecare energie quando posso impiegarle ad aiutare mio padre nello stare meglio, nel minor tempo possibile?”». Nonostante ciò, dell’uomo che ha sparato non vuole sentir parlare: «Lui farà la sua vita. Io, la mia». E così è, in un andirivieni tra il residence in cui alloggia e la stanza del padre.
Intorno a essa, un cordone di solidarietà tra colleghi in divisa e gente comune che le scrive o la contatta sui social network. E lei, lettere alla mano o con l’iPad, mostra tutto al papà per poi rispondere singolarmente, in un impegno che si fa quotidiano. «Solo coi bimbi lo farò più avanti perché voglio scrivere qualcosa di carino e siamo d’accordo che lo faremo insieme; non appena starà meglio». Ma, per ora, «si fa fatica persino a fare una diagnosi: sarà un ricovero lungo, minimo di sei mesi». Oltre, c’è la speranza «di tornare a casa – non ci terranno qui mica a vita? – con papà, in qualsiasi condizione sia». Questo, in un futuro prossimo, perché più avanti non si spinge: «Comunque mi auguro che lui, se anche non sarà in grado di camminare, possa essere sulla buona strada. E poi, magari, da qui a cinque dieci anni, la medicina avrà fatto progressi e individuato una cura per il suo tipo di lesione».
Speranza che ci sentiamo di condividere, per un uomo che era davanti alla Camera in servizio, a svolgere il proprio lavoro, come fanno altre migliaia di persone. In più, come sottolinea Martina, «se è stato ferito è perché stava difendendo loro» e si riferisce sì ai politici, ma più in generale alle Istituzioni. Ecco, non è da dimenticare, specialmente in un periodo come questo in cui le difficoltà, soprattuto economiche, possono sfociare in tensioni sociali. Ce lo ricorda l’Europa ma è ormai sotto gli occhi di tutti.
Perciò, in questo numero, abbiamo inteso parlare di ‘crisi’, di uomini e donne che non ce la fanno più e decidono di dire basta; ma pure di operatori delle Forze di polizia che faticano a arrivare a fine mese.
Anche di questo dovrà occuparsi il nuovo capo della Polizia, Alessandro Pansa, cui va il saluto della nostra rivista. Un incarico, il suo, arrivato in un momento affatto semplice. Lo conferma l’Espresso in una recente inchiesta: “In tutte le città, la crisi moltiplica i reati. E aumenta la paura. Mentre le Forze dell’Oodine hanno sempre meno uomini e mezzi […]. Senza rimpiazzi, il buco negli organici ha toccato il 10 per cento: a dicembre 2011 mancavano 27mila uomini e donne in divisa”, mentre le Volanti in giro per le città scareseggiano: a Roma, ad esempio, ce n’è una ogni 40mila abitanti.
«Questo modo di pensare che i tutori dell’ordine siano l’ultimo baluardo delle Istituzioni cui è comunque richiesto il servizio, nonostante l’assenza di fondi - ha detto Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd, ospite di Polizia e Democrazia - è un’idea non partecipativa dello Stato. Serve una rivoluzione culturale per recuperare il senso completo di cittadinanza dei mebri delle Forze dell’ordine che, come noi politici e come tutti i cittadini, partecipano alla costruzione, alla qualità e alla morale della vita pubblica. Questo è uno sforzo che dobbiamo fare». Ora.
|