Il giornalista Giovanni Bianconi ricostruisce
l’ultimo periodo di vita del magistrato siciliano
attraverso i documenti e i ricordi dei protagonisti
“L’aula della Corte di Cassazione, al quarto piano del Palazzaccio, ospitò un processo anche nel giorno in cui non erano previste udienze. La mattina di sabato 26 ottobre 1991, sul banco degli imputati c’era il potere politico. Rappresentato dal ministro della Giustizia Claudio Martelli, dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga e non solo. Alla sbarra, assente come gli altri ma idealmente al loro fianco, c’era pùre Giovanni Falcone. Il più famoso tra i giudici italiani, messo sotto accusa dai suoi colleghi riuniti in assemblea. Il giorno precedente il governo aveva varato il decreto legislativo che istituiva la Direzione Nazionale Antimafia, ufficio di coordinamento delle indagini sulla criminalità organizzata, dotato di molti poteri, innovativi e invasivi insieme. Alla sede centrale collocata a Roma, composta da un superprocuratore più venti sostituti, sarebbe spettato il compito di controllare le indagini sul territorio affidate a 26 procure distrettuali che avrebbero avuto la competenza esclusiva su mafia, camorra, ‘ndrangheta e fenomeni simili. Niente più inchieste parcellizzate sul territorio, quindi, né affidate a strutture inadeguate e senza esperienza, con visioni diverse tra loro, bensì una risposta giudiziaria unitaria e proprio per questo coordinata dalla DNA, incasellata presso la Procura generale della Cassazione. Destinata a verificare l’attività delle procure distrettuali, elaborare strategie investigative, raccogliere e fornire indicazioni agli uffici periferici, mantenere un collegamento con governo e Parlamento per formulare indirizzi di carattere generale.
In caso di delle procure distrettuali, la DNA avrebbe potuto avocare le inchieste e condurle direttamente…”
Si apre così uno dei capitoli centrali, intitolato “un ufficio su misura”, di un volume da poco in libreria: L’ASSEDIO, troppi nemici per Giovanni Falcone, Einaudi Stile Libero Extra, pagg. 392, 19,00 euro, firmato dal giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi.
Un libro avvincente, intenso e drammatico che ricostruisce a venticinque anni dalla strage di Capaci l’ultimo periodo della vita del magistrato siciliano attraverso documenti e ricordi dei protagonisti. Un libro bello e necessario: bello perchè ci regala la possibilità di riflettere sul recente passato del nostro paese, mostrandoci quanti passi avanti si sono fatti da allora nel contrasto alla criminalità organizzata; necessario perché ci ricorda che Giovanni Falcone, oggi giustamente e doverosamente considerato da tutti noi un esempio di grande professionalità, di assoluto rigore morale e di forte senso di abnegazione, fu un uomo che cambiò radicalmente, innovò e inventò - per questo era qualcosa di più che un bravo magistrato, per questo era un fuori classe - il modo di affrontare la lotta alla mafia. E per questo mentre era in vita aveva tanti nemici, oltre agli uomini della criminalità organizzata naturalmente, tra i colleghi, tra i rappresentanti delle istituzioni e tra i giornalisti.
“Giovanni Falcone nell’ultimo anno e mezzo della sua vita - ha detto Giovanni Bianconi, l’autore di questo libro - è stato assediato sia dai mafiosi che lo cercavano per ammazzarlo sia da alcuni colleghi, da alcuni uomini delle istituzioni, da una parte dell’opinione pubblica che criticarono il suo lavoro contribuendo così a isolarlo e a renderlo un bersaglio più facile…”
La grande e decisiva intuizione del giudice Falcone fu quella secondo cui la lotta alla mafia andava affrontata in modo unitario e per questo doveva essere coordinata da una Direzione Nazionale e da magistrati specializzati in questa materia. Ma la prima sonora sconfitta non tardò ad arrivare: a capo dell’ufficio Istruzione di Palermo il CSM nominò Antonino Meli (68 anni), un magistrato più anziano di Giovanni Falcone (49 anni) ma senza nessuna esperienza significativa sul contrasto alla criminalità organizzata.
Nel 1987 con il dibattimento del maxi ancora in corso - racconta Bianconi nella sua ricostruzione - Antonino Caponnetto decise di tornare nella sua Toscana. Il consigliere istruttore di Palermo che aveva chiesto e ottenuto quel posto dopo gli omicidi di Cesare Terranova e di Rocco Chinnici, decise di chiudere la carriera a Firenze. Ci pensò molto Caponnetto a questa sua decisione e accettò il trasferimento solo dopo aver avuto la certezza che il CSM avrebbe nominato come suo successore Giovanni Falcone, il giudice più esperto del pool antimafia, il simbolo del lavoro culminato nel processo che si stava celebrando nel bunker dell’Ucciardone. In autunno al congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati celebrato a Genova lo stesso Falcone credeva di aver raccolto sufficienti garanzie per poter proseguire il lavoro come capo del pool. A cominciare dalla sua corrente di appartenenza, Unità per la Costituzione, maggioritaria e centrista come orientamento politico-culturale. Con lui si sarebbero schierati i laici del PCI e forse anche quelli della DC. All’interno di altre correnti, nella sinistra di Magistratura democratica e nella destra di Magistratura indipendente si sarebbero trovati i voti sufficienti per la nomina. Ma la sera del 15 dicembre 1987, mentre i giudici del maxiprocesso si preparavano ad uscire dalla camera di consiglio per emettere la sentenza, i sei consiglieri della commissione incarichi direttivi del CSM fecero un’altra scelta - come ricorda ancora Giovanni Bianconi - : tre votarono per l’anziano Antonino Meli e solo due per Giovanni Falcone. L’ultimo si astenne. Con Meli si schierarono i due consiglieri di Magistratura indipendente e uno di Unicost, Umberto Marconi. Per Falcone l’altro consigliere di Unicost, Nino Abbate e il comunista Massimo Brutti. L’astenuto era il democristiano Erminio Pennacchini. La corrente di Falcone si era spaccata e anche quella di Borsellino - magistratura indipendente - gli aveva voltato le spalle. La votazione definitiva del plenum che avrebbe dovuto ratificare oppure no la scelta della commissione slittò fino al 19 gennaio 1988: 14 preferenze per Meli, 10 per Falcone, 5 astenuti. Il giudice Meli fu scelto al posto del giudice Falcone perchè prevalse la logica secondo la quale il candidato più adatto a quella poltrona sarebbe stato il giudice più anziano. In quel frangente però emerse anche un’altra questione, che avrebbe accompagnato Falcone per tutta la vita: quella del giudice famoso, del magistrato simbolo, presente in televisione e sui giornali. In Italia e all’estero. Umberto Marconi che era un collega di Giovanni Falcone e che apparteneva alla stessa corrente pronunciò parole che rilette oggi risultano come minimo anacronistiche: “Accentrare tutto in figure emblematiche, pur nobilissime, è di certo fuorviante e pericoloso. Ciò è titolo per alimentare un distorto protagonismo giudiziario, una non genuina gara per incarichi di ribalta, degradare un così ampio impegno in una cultura da personaggio, pericolosa tentazione in chi si sia accinto su ben altre premesse a tanto encomiabile servizio. Si trasmoda nel mito, si postula una infungibilità che non risponde al reale, mortifica l’ordine giudiziario nel suo complesso”.
Ancora altri attacchi e ancora più duri sarebbero arrivati al giudice italiano più conosciuto al mondo e che tutto il mondo ci invidiava per la sua grande capacità nel contrasto alle organizzazioni mafiose e alla Cosa Nostra siciliana in particolare come la chiamava uno che l’aveva conosciuta bene perché ne aveva fatto parte, don Masino Buscetta. Forse l’attacco più tiepido e meno peloso fu quello di essersi venduto ai socialisti e all'ex ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, delfino di Bettino Craxi, che chiamò Falcone a Roma al ministero. Giacomo Caliendo, all’epoca vicepresidente dell’ANM, esponente della corrente centrista Unicost, già componente del CSM e con una futura carriera da senatore del Popolo delle Libertà e di Forza Italia, poi sottosegretario alla Giustizia nell’ultimo governo Berlusconi, dichiarò: “Siamo di fronte a una mossa del ministro e dei colleghi che gli siedono accanto - allusione a Falcone - che fa cadere le regole dello stato di diritto. Mentre si delineano le connessioni tra mafia e politica, ci si dice che occorre riformare il pubblico ministero”.
Raffaele Bertoni che fino a poco prima era stato presidente dell’ANM, anche lui prossimo all’ingresso in Parlamento sotto le insegne del Partito democratico della sinistra, si espresse con parole che oggi suonano stonate e decisamente fuori luogo: “C’è un’evidente incompatibilità tra la Costituzione italiana e il ministro Martelli; la Costituzione può anche cambiare ma finchè non cambia deve cambiare il ministro Martelli !” E poi l’affondo sulla neonata Direzione nazionale antimafia: “Sarà in magistratura quello che è la Cupola nella mafia, con una differenza in peggio; al di sopra della Cupola, stando a Falcone, non ci sono estranei che la dirigano, mentre la Superprocura sarà certamente diretta da organi esterni all’ordine giudiziario”. L’allora segretario dell’ ANM Cicala, conservatore di Magistratura Indipendente, definì la superprocura una struttura “stravagante”.
Poi il 21 giugno 1989 ci fu il fallito attentato all’Addaura: i 58 candelotti che furono messi nei pressi della villa al mare dove il giudice Falcone si era ritirato per trascorrere qualche giorno non esplosero. Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, riporterà, in riferimento al fallito attentato, quanto veniva fatto circolare nei giorni successivi negli ambienti della DC e del PCI a Palermo: “I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità”.
E così tra mille polemiche arriva una data decisiva: 12 marzo 1992: Il giudice Falcone è nella sua stanza al ministero di Grazia e Giustizia con la televisione sintonizzata, come al solito, sul notiziario: alle 10 e 9 minuti lampeggia sul video un lancio dell’ultima ora: “l’on. Salvo Lima, deputato della DC al Parlamento europeo, è stato assassinato stamattina a Palermo”. Dirà Giovanni Falcone: “Da ora in poi può accadere di tutto”. E infatti è accaduto di tutto.
Il 6 maggio del 2004, dopo dodici anni dalla strage di Capaci, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha scritto, nella sentenza che ha reso definitive alcune condanne per l’attentato all’Addaura: “Non vi è dubbio che Giovanni Falcone fu sottoposto a un linciaggio - prolungato nel tempo, proveniente da più parti, gravemente oltraggioso nei termini, nei modi e nelle forme - diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro professionale del magistrato…”
Giovanni Bianconi
L’Assedio
Einaudi Stile Libero Extra
2017 pp. 392, € 19
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