La sinistra, almeno come io l’ho conosciuta, era un mix di realtà e di speranza. La realtà consisteva nella solidarietà e nelle tante, molte cose che da giovani ci legavano all’interno dei quartieri operai, cose fatte di impegno quotidiano, passione, slanci, alle volte anche troppo accentuati; il tutto in una immagine densa che conteneva le tante cose che noi si aveva in comune: in particolare le molte ristrettezze economiche e la prospettiva di un lavoro, nella migliore delle ipotesi, simile a quello dei nostri genitori. Il collante era spesso il lavoro che si svolgeva, nella maggior parte dei casi in fabbrica, le molte giornate di impegno politico e sociale, il tempo libero organizzato dalle associazioni o dal partito. La speranza che ci univa era il cambiamento di una società che ritenevamo ingiusta, in tutti i sensi.
La mia famiglia, di provenienza antifascista che aveva subito le angherie del fascismo, sperava in tutto questo e devo dire che mio padre, fin quasi alla sua morte, ne era ancora convinto sebbene le divisioni della sinistra lo avessero inesorabilmente reso, man mano, sempre meno ottimista. Noi che leggevamo l’Unità e il Calendario del Popolo, frequentavamo le Società di Mutuo Soccorso dove prima mio nonno e poi mio padre erano stati sia segretario che presidente, non potevamo che essere quei “pionieri” che, visitando i Paesi socialisti, rimanevamo affascinati da tutto ciò che si parava davanti restando stupiti quando agli inizi degli anni ‘70, parlando con chi ci viveva, apprendevamo che esistevano persone che, incredibilmente per noi, avevano a criticare quel sistema.
Nonostante le divisioni e le crisi della sinistra penso di non averla mai tradita e, sebbene oggi manchi molto del collante a cui facevo riferimento, credo che essa possa e debba ancora avere un senso come lo ebbe nel più recente passato. Spero che non si debba tornare troppo indietro nel tempo magari con ulteriori limitazioni sul versante dei diritti per riaccendere una scintilla che si riduce, purtroppo, di anno in anno. Per essere credibili o autorevoli e, quindi, per essere “ascoltati dalle persone” dovremmo ritornare ad essere ciò che eravamo: vicini alla gente, ai lavoratori e ai giovani. Anche il mio compaesano Sandro Pertini pensava questo. Possiamo riuscirci se lo vogliamo magari dando noi per primi l’esempio e ponendo quelle basi che tendano a riaggregare persone che si sentirebbero stimolate e unite rispetto ad un’idea di riscatto e di miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, sia che si tratti di vecchi come di nuovi italiani.
Credo che per vincere queste sfide noi ci si debba confrontare pragmaticamente e disincantatamente con il mondo che si trova al di là dal nostro uscio evitando condizionamenti, stereotipi e gabbie d’ogni tipo, allontanandoci da una realtà che presumibilmente abbiamo creato per una nostra sola convenienza e che non ci permette di essere più quel collante che in passato eravamo. Prima di ogni cosa e prima che attecchiscano ideologie devastanti o vuoti di pensiero agitati da supposti premier, occorre confrontarci con la semplice e cruda realtà impegnandoci noi tutti come in passato affinché al disagio crescente delle persone si sappiano dare le giuste risposte a partire dalle priorità e facendo tutto ciò in tempi rapidi, il resto verrà da sé.
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