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Giugno - Luglio/2020 - Articoli e Inchieste
Memoria
Mario Amato, il volto pulito dello Stato
di Matteo Picconi

Quarant’anni fa l’agguato mortale in viale Jonio da parte dei NAR, gruppo eversivo di destra sul quale il giudice stava indagando

Abbiamo il dovere di non dimenticare mai il sacrificio di chi ha vissuto e lavorato per la giustizia». Con queste parole l’attuale Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha commemorato lo scorso 23 giugno il giudice Mario Amato. Come ogni anno, la cerimonia si svolge davanti alla stele sita in viale Jonio, sul luogo dove nel giugno del 1980 il giudice venne ucciso con un colpo di pistola alla nuca per mano del terrorista di estrema destra Gilberto Cavallini, appartenente ai Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR). La tragica vicenda del sostituto procuratore della Repubblica ancora oggi lascia spazio a critiche e riflessioni: è la storia di un giudice onesto e coraggioso che, riprendendo ancora le dichiarazioni del Ministro Bonafede, «è stato lasciato solo nella sua battaglia di civiltà da uno Stato che, dobbiamo dirlo, non ha saputo proteggerlo».
Nato a Palermo il 24 novembre 1937, il giovane Amato vive nel capoluogo siciliano fino al compimento della maggiore età. Stabilitosi con tutta la famiglia nella Capitale, realizza il suo sogno di entrare in Magistratura nel 1970. Un anno dopo arriva il primo incarico e viene nominato sostituto procuratore a Rovereto. Lontano dai clamori politici di quei primi “anni di piombo”, nel piccolo comune trentino Amato ci rimane sei anni, occupandosi principalmente di delinquenza comune. Nel 1977 il trasferimento tanto atteso: entra nella Procura di Roma e il giudice, con la moglie e i due figli piccoli, torna nella Capitale nel momento “più caldo” della stagione del terrorismo e dello spontaneismo armato.
Il ritorno a Roma segna per sempre il destino del giovane magistrato. L’allora Procuratore Generale Giovanni De Matteo gli affida il compito di riprendere le indagini intraprese da Vittorio Occorsio, ucciso l’anno prima da Pierluigi Concutelli, esponente di Ordine Nuovo. Un’eredità pesante e scomoda, che nessuno dei sostituti procuratori, chiamati in causa fino ad allora, vuole prendere in consegna. Nel settembre del ’77 il primo caso che affronta è il c.d. “processo della Balduina”: un giovane ventenne di sinistra, Walter Rossi, viene raggiunto da alcuni colpi di pistola, esplosi (come poi emerge successivamente in sede processuale) da Cristiano Fioravanti, fratello del più noto Giuseppe Valerio, detto Giusva, membro di spicco dei neonati NAR.
Amato comincia così ad indagare su un mondo, quello dell’estrema destra giovanile, all’epoca quasi “inesplorato”. Mentre lo Stato concentra tutte le sue forze contro le Brigate Rosse e altre formazioni dell’estrema sinistra, l’erede di Occorsio intuisce che dietro quei rampolli figli della Roma bene si celano trame eversive pericolosissime. Fin dalle prime battute verrà lasciato solo dalla Procura di Roma e il terrorismo nero, allora in ascesa, continua ad essere sottovalutato.
Siamo all’alba di quel “fatidico” 1978 e la strage nella sede del MSI in via Acca Larentia inaugura di fatto la stagione delle violenze firmate NAR. Nel giro di due mesi seguono l’omicidio Scialabba, un giovane di sinistra freddato “a caso” da Valerio Fioravanti, e la rapina all’armeria Centofanti nel quartiere Monteverde, dove perde la vita il neofascista Franco Anselmi, appena ventiduenne. Le indagini di Amato, tra i primi ad individuare le connivenze tra estremismo di destra e malavita comune (ancora non si parlava di banda della Magliana), portano i primi risultati nel 1979, in seguito all’assalto, con bombe e mitra, alla sede di Radio Città Futura. Le bombe SRCM utilizzate dai terroristi risulteranno essere le stesse che Giusva Fioravanti ha prelevato, l’anno precedente, dalla caserma di Spilimbergo, mentre era in servizio di leva in Friuli. Per il giovane leader scatta l’arresto e Amato prova a contestargli la costituzione di banda armata. Giusva uscirà dopo solo quattro mesi di prigione. Il giudice finisce così sulla lista nera dei terroristi neo fascisti.
Nel biennio ’79-’80 le azioni dei NAR raggiungono l’apice della violenza (risulteranno secondi, per numero di vittime, soltanto alle BR). Decine di rapine, assalti a sedi politiche (come quella del PCI al quartiere Esquilino) e, soprattutto, agguati contro esponenti delle forze dell’ordine. Gli omicidi dell’agente Arnesano, ucciso al solo scopo di impadronirsi del suo mitra, e dell’appuntato Francesco Evangelista rappresentano un’inversione di tendenza del terrorismo di stampo neofascista. Emblematiche, in tal senso, le dichiarazioni del pentito Cristiano Fioravanti, interrogato presso il Tribunale di Bologna nell’ottobre del 1989: «A me sinceramente dava molto fastidio che non potevamo fare scontri con la polizia, perché la polizia era dalla parte nostra, oppure la Magistratura ci copriva… Era risaputo che i giovani di destra erano i figli di papà che rispettavano la legge e che non andavano “contro”… io volevo uscire da quegli schemi».
Secondo quanto è stato riportato dalla stampa e dalla copiosa letteratura dedicata al giudice palermitano negli ultimi anni, Amato non solo non viene supportato nelle sue ricerche (i collaboratori promessi da De Matteo non vengono mai messi a disposizione) ma viene addirittura scoraggiato e osteggiato dai sui colleghi. Un nome su tutti, rimbalza spesso tra le cronache di allora, quello del giudice istruttore Antonio Alibrandi, padre di Alessandro Alibrandi, detto Alì Babà, esponente di primo piano dei NAR e amico fraterno dei fratelli Fioravanti. In seguito all’attentato di viale Jonio, ad Alibrandi padre verranno contestati i seguenti fatti: di aver interferito in un’istruttoria per indurre un ufficiale di Polizia giudiziaria a non adempiere ai suoi doveri nel corso di una perquisizione in una sede del Fronte della Gioventù; di aver cercato di influenzare Amato nel corso di un dibattimento per ricostituzione del partito fascista; di essersi più volte rivolto, in pubblico o privatamente, nei suoi confronti con “espressioni di vendetta e di minaccia” e altre frasi velatamente offensive. Alibrandi verrà condannato alla censura nel settembre del 1982, nove mesi dopo la morte del figlio Alessandro, rimasto ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia in cui muore anche l’agente Ciro Capobianco. Entrambi avevano solo ventun anni.
Agli inizi del 1980 le indagini di Amato sono vicine ad una svolta. Una prima conferma delle sue ipotesi investigative arriva dal caso del “dossier di Valerio Verbano”, giovanissimo militante dell’Autonomia Operaia che aveva condotto delle ricerche sulla destra eversiva romana, assassinato il 22 febbraio nella sua casa in via di Montebianco (quartiere Monte Sacro, a pochi passi dall’abitazione del giudice). Il misterioso dossier Verbano finisce nelle mani di Amato, per poi sparire nuovamente nel nulla dopo la sua morte pochi mesi dopo. Il 17 aprile Amato riceve una lettera anonima che lo invita ad interrogare un tale di nome Marco Mario Massimi, pregiudicato detenuto da qualche giorno a Regina Coeli, il quale è in grado di fornire informazioni utili in merito al terrorismo nero. Autore della lettera anonima è, per sua ammissione, lo stesso Massimi: Amato ventiquattro ore dopo lo interroga nella sua cella di via della Lungara. Massimi conferma al giudice dettagli importanti in merito a rapine messe a segno dai NAR, come quella all’armeria Omnia Sport e alla Manhattan Cheasse Bank, nonché sull’omicidio di Antonio Leandri, ucciso per sbaglio in quanto confuso con il vero obiettivo dell’agguato, l’avvocato Arcangeli, ritenuto responsabile della cattura di Concutelli. Le dichiarazioni di Massimi confermano un’ipotesi che Amato ha in mente da tempo: i gruppi eversivi come NAR e Terza Posizione rispondono a un disegno più grande, coordinato e diretto da vecchi elementi dell’ormai disciolto Ordine Nuovo. Spuntano così fuori due nomi “eccellenti”, come il criminologo Aldo Semerari e il professore missino Paolo Signorelli. Tra le dichiarazioni di Massimi emerge poi quel tragico, annunciato, avvertimento: Amato è uno degli obiettivi principali di queste organizzazioni terroristiche. Il giudice riporterà tali dichiarazioni a De Matteo ma non seguiranno le giuste misure preventive per proteggerlo dai suoi assassini.
«Mario Amato, giudice senza scorta e senza protezione, è l’ultima vittima del terrorismo. L’hanno ammazzato davanti alla fermata del 391, l’autobus che tutti i giorni lo portava da casa in Procura. Un omicidio più facile di uno scippo: gli hanno sparato una sola pallottola alla nuca». Con queste parole un giovane giornalista Andrea Purgatori introduce la triste notizia sulla prima pagina del Corriere della Sera la mattina del 24 giugno. Amato era in attesa di un’auto che lo portasse a piazzale Clodio, ma la macchina non sarebbe arrivata prima delle 10. A freddarlo alle sue spalle è Gilberto Cavallini, terrorista milanese da poco aggregatosi ai NAR romani. Il complice che guida la moto verrà poi riconosciuto in Luigi Ciavardini, all’epoca dei fatti addirittura minorenne. I giorni seguenti sono di grande cordoglio, rammarico e sdegno, mostrato soprattutto da molti dei suoi colleghi. Un riconoscimento tardivo, non dissimile da quello che, nel decennio successivo, avrebbe fatto seguito al sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino. Dopo la morte di Amato la Procura cambia direzione e comincia ad affrontare seriamente il problema della destra eversiva. I campanelli di allarme, d’altronde, sono tanti: non passano neanche quaranta giorni dall’agguato di viale Jonio che salta in aria la stazione di Bologna.

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