L’iter giudiziario che ha portato alla scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare del maggiore indiziato di Mafia Capitale
Lo scorso 16 giugno ha destato molto clamore la scarcerazione di Massimo Carminati. Il presunto boss del Mondo di Mezzo è uscito dal carcere di Oristano ed è tornato nella sua casa di Sacrofano, con l’obbligo di dimora e il divieto di espatrio, in attesa del processo di “rinvio” in Corte d’Appello, che dovrà ricalcolare la pena sulla base delle statuizioni della Corte di Cassazione.
Grande l’impatto mediatico (legittimo, date le premesse), ma forse è utile fare un po’ di chiarezza. Se si guarda e si analizza l’intera vicenda processuale da un punto di vista politico e morale, non si può che rilevare, alla fine, lo “sgretolamento” di tutto quell’apparato di accuse scaturite dalle inchieste su “Mafia Capitale”, che lo stesso coimputato di Carminati, Salvatore Buzzi, ha definito nei giorni scorsi una mera «montatura mediatico giudiziaria». La pronuncia della Cassazione ha di fatto chiuso definitivamente un capitolo: l’associazione criminale non era aggravata dal metodo mafioso.
Il discorso cambia se si affronta la questione da un punto di vista strettamente giuridico: la scarcerazione disposta dal Tribunale della Libertà nei confronti di Carminati (che, va ricordato, è ancora in attesa di una sentenza definitiva), si è svolta nella piena e corretta applicazione della legge. Prima di analizzare i tre gradi di giudizio e l’ordinanza del Tribunale della Libertà è utile fare una precisazione: c’è una netta distinzione tra il mero iter processuale (la storia del processo nelle sue varie fasi) e la “storia” della detenzione dell’imputato. La custodia cautelare, in base ai reati contestati, risponde a delle tempistiche ben precise, le quali possono appunto “scadere” prima che si arrivi a una sentenza definitiva. Per comprendere appieno tutte le tappe dell’intera vicenda giudiziaria, caratterizzata certamente da un susseguirsi di colpi di scena, è utile tornare al punto di partenza, al giorno dell’arresto di Carminati.
Con l’ordinanza di custodia cautelare del GIP di Roma del 28 novembre 2014, eseguita il 2 dicembre successivo, Carminati veniva tratto in arresto, vicino alla sua Sacrofano, per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione aggravata, corruzioni aggravate, turbativa d’asta e intestazione fittizia. Con una successiva ordinanza, notificatagli in carcere il 4 giugno 2015, gli venivano contestati ulteriori reati di corruzione propria, turbativa d’asta e intestazione fittizia. Sempre tra maggio e agosto dello stesso anno, il GIP emetteva due decreti di giudizio immediato relativi ai fatti contestati nelle due ordinanze, dando così il via al processo di Carminati e di “Mafia Capitale”.
Con la sentenza di primo grado, del 20 luglio 2017, il primo colpo di scena: il Tribunale di Roma, riqualificato il reato associativo nell’ipotesi “semplice” invece che di “stampo mafioso”, ritenuta la continuazione fra tutti i reati ed esclusa l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 7 legge 203/91, condannava Carminati a 20 anni di reclusione più la multa. Va rilevato che, già prima della sentenza, nel mese di giugno, Carminati veniva rimesso in libertà per decorrenza dei termini “di fase” di custodia cautelare, in ordine ai reati di cui alla prima ordinanza del novembre 2014. Circostanza di cui tener conto per capire appieno come si è arrivati alla scarcerazione di questi giorni. Di fatto, Carminati, da quella data, è rimasto in stato detentivo solo ed esclusivamente per due reati di corruzione propria, quelli che gli erano stati contestati con la seconda ordinanza del giugno 2015.
Con la sentenza di secondo grado dell’11 settembre 2018, la seconda sorpresa: la Corte d’Appello di Roma condannava Carminati alla pena di anni 14 e mesi 6 di reclusione, dopo aver riqualificato, però, il reato associativo nell’ipotesi di cui all’art. 416bis (stampo mafioso) e, conseguentemente applicato per tutti i reati, l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art 7 203/91 (l’aver agito, appunto, con metodologia mafiosa). Per riassumere, la Corte di Appello, in totale disaccordo con la sentenza di primo grado, riconosceva quindi la validità e la fondatezza dell’impianto accusatorio originario.
Tutto lasciava credere che ormai ci si sarebbe avviati verso la logica conclusione di un processo “per mafia”. Ma con la sentenza della Corte di Cassazione del 22 ottobre 2019 si ha un nuovo e definitivo ribaltone: non c’è l’aggravante di stampo mafioso, si tratta di “semplice” associazione a delinquere con tutto quel che ne consegue in termini di pena (non è applicabile nemmeno l’aggravante di cui l’art. 7 203/91) ed il processo, quindi, viene rinviato ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per la rideterminazione della pena. Per Carminati e i suoi difensori una vittoria giudiziaria dal duplice effetto: da un lato il ridimensionamento della gravità dei reati contestati e, di conseguenza, la più che probabile riduzione della pena attualmente inflitta; dall’altro, l’inevitabile ed “utilissimo” allungamento dei tempi processuali con l’introduzione di un’altra fase di giudizio (il nuovo processo che dovrà svolgersi in appello per ottemperare alle statuizioni della Suprema Corte). È appunto nelle more di questa fase che sono venuti a maturazione i termini massimi di custodia cautelare e la conseguente scarcerazione di Carminati.
Il cittadino comune potrebbe lecitamente chiedersi: come è possibile che, in un processo dalla così grande risonanza mediatica, riguardante un imputato accusato di gravi delitti e, per di più, gravato da tanti e “importanti” precedenti penali, si è arrivati alla scarcerazione per decorrenza dei termini? La risposta è semplice: perché Carminati, seppur processato (e condannato) per numerosi reati, anche gravi, come è stato già detto era detenuto solo ed esclusivamente per due reati di corruzione, quelli contestati con l’ordinanza del giugno 2015. Unico problema: se fosse o meno decorso il termine “massimo” di custodia cautelare in relazione a questi due reati. La Corte d’Appello ha ritenuto di no per ben due volte, insistendo, soprattutto, sul fatto che l’inizio della carcerazione fosse riconducibile alla data di notifica della seconda ordinanza e non “retrodatato” al momento dell’arresto.
È qui che entra in gioco il Tribunale della Libertà al quale si sono rivolti i difensori di Carminati sostenendo, invece, che la decorrenza della carcerazione (per i due reati di corruzione) fosse da ricondurre al momento dell’arresto (quindi “retrodatabile” al 2 dicembre 2014). “Retrodatazione”, peraltro, espressamente dichiarata dal GIP nella sua stessa ordinanza custodiale. I giudici del Tribunale del Riesame hanno ritenuto sussistenti tutti i presupposti dell’art. 297 c.p.p. che, al terzo comma, recita: «Se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione (…) i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave».
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