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Giugno - Luglio/2020 - Articoli e Inchieste
Carceri
Boss ai domiciliari, una classica storia italiana
di Lorenzo Baldarelli

Tra errori d’ufficio e scaricabarili: la ricostruzione dell’annosa vicenda che coinvolge il Dap, il Ministero della Giustizia e il Tribunale di Sorveglianza

Emergenza Corona virus; dopo le scarcerazioni eccellenti, le polemiche, le inchieste e le assicurazioni del guardasigilli Bonafede ad oggi la situazione sembra rientrare ma rimane quantomeno fumosa. Il ministro ora pronto a coinvolgere la Direzione nazionale antimafia e l’antiterrorismo, comprese le rispettive diramazioni sul territorio, in tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati legati ai due ambiti di competenza degli organi. Ma come si è arrivati a concedere gli arresti domiciliari ad alcuni boss, tra cui Francesco Bonura (fedelissimo di Provenzano) o Pasquale Zagaria storico boss del clan dei Casalesi? Per ora l’unica cosa chiara è la capacità della nostra élite politica di fare scaricabarile, sport che da anni è diventato nazionale. La commissione Antimafia continua le indagini, palazzo San Macuto vuole soprattutto capire come sia nata quella nota e perché ci fu tanta fretta nell’applicarla.
Con una circolare del 16 giugno il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), ritorna sui suoi passi: «si dispone la sospensione dell’efficacia delle disposizioni impartite con la nota n. 95907 del 21 marzo 2020». Anche se rimane la necessità «del più accurato monitoraggio delle condizioni di salute» dei detenuti con patologie gravi e collegate al Covid-19; il numero dei contagiati è di «66 persone su poco più di 53.000 detenuti» ed è in costante diminuzione. «Negli istituti penitenziari risultano in atto protocolli di prevenzione dal rischio di diffusione del contagio».
Il provvedimento diffuso il 21 marzo scorso, oltre ad essere al centro di un’indagine della commissione parlamentare d’inchiesta di Nicola Morra, ha anche acceso uno scadente dibattito politico nel nostro Paese. Uno di quei dibattiti che una volta scemati non lasciano nulla; quindi è inutile riproporlo. Ma il fatto, invece, merita almeno una ricostruzione.
La circolare, inviata ai direttori delle carceri, elencava le patologie più a rischio per chi avesse contratto il Covid-19 e disponeva che le Direzioni avessero dovuto segnalare «con solerzia» ai magistrati di sorveglianza i detenuti più esposti. Tra l’elenco delle varie patologie, come il diabete scomposto, l’insufficienza renale o l’HIV, c’era l’ultimo punto; quello che ha fatto scaturire i maggiori problemi: «Persone di età superiore a 70 anni».
Volontà politica o svista? Per molti esponenti della Magistratura e del Dap, tra cui Caterina Malagoli, dirigente ascoltata in commissione, quella circolare significava una sola cosa: «Al 41bis, soprattutto tra i siciliani di Cosa nostra, la maggior parte è gente ultrasettantante». La circolare del 21 marzo non faceva distinzioni di sorta per le condizioni giudiziarie dei carcerati e sembra anche non avere grande rilevanza per l’emergenza Covid. Infatti una legge per diminuire la pressione sui penitenziari già c’era. I magistrati avevano già recepito il decreto “Cura Italia”, che incentivava la concessione dei domiciliari ai detenuti per reati minori e con meno di 18 mesi ancora da scontare. Alcune fonti interne all’ambiente penitenziario, sentite dal Fatto Quotidiano, e il dottor Giulio Starnini, dirigente dell’Unità Medicina Protetta dell’ospedale Belcolle (Viterbo), confermano però che la nota del 21 marzo, riporta il Fatto, «non era stata pensata per effettuare un mero monitoraggio dei detenuti a rischio Covid-19 ma per propiziare quell’effetto “sfolla-carceri“ che avrebbe coinvolto anche carcerati più pericolosi».
Il materiale ideatore dell’atto del 21 marzo, però, non la pensa così. Per Giulio Romano, già membro del Csm (2006-2010) e ricordato come «l’estensore della sentenza di condanna disciplinare contro l’allora pm Luigi De Magistris». Come ci ricorda Giuseppe Pipitone sul Fatto Quotidiano. «A Palazzo dei Marescialli fu pure l’unico togato ad astenersi quando il Csm votò contro il bavaglio delle intercettazioni voluto dall’allora guardasigilli Angelino Alfano nel 2009». Per Romano «il clamore per cui “circolare uguale scarcerazioni” è un messaggio sbagliato», afferma il magistrato, che inoltre si è difeso elencando sentenze dei tribunali di Sorveglianza precedenti alla stesura del suo atto.
Il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, però non è sembrato soddisfatto da queste parole, si è infatti detto «esterrefatto» dall’esposizione di Romano, riconvocandolo per il giorno seguente per proseguire l’audizione. Morra sembra sia stato colpito, negativamente, da come sia stata trattata la questione di Pasquale Zagaria.
Non solo Zagaria. Forse sono addirittura quaranta le scarcerazioni dei boss. Scarcerazioni che hanno mandato su tutte le furie il capo della procura nazionale antimafia Cafiero De Raho ma anche Gian Carlo Caselli, Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, Catello Maresca. Tutti rivendicano e ricordano il sacrificio di colleghi, poliziotti e carabinieri, che hanno perso la vita per assicurare alle patrie galere i boss italiani.
Le critiche coinvolgono soprattutto il Dap, guidato dall’ex pm di Potenza Francesco Basentini, che dalle rivolte di febbraio a oggi non ne avrebbe azzeccata una.
Per Zagaria, boss dei Casalesi, si è parlato di una «svista su mail». Romano ha spiegato che si trattò di una svista: «è stato accertato un errore nell’indicazione della posta elettronica del dipendente del Tribunale di Sassari, imputabile all’ufficio e al personale della direzione che io dirigevo», ha raccontato il magistrato, aggiungendo che con il sistema di posta elettronica interno al Dap arriva la conferma di lettura per le pec mentre se si tratta di posta ordinaria «non sai se è arrivata». Di fatto, si afferma che Zagaria è fuori dal carcere perché le mail che il Dap sosteneva di aver inviato al giudice di Sassari non sono arrivate, in quanto inviate a una casella di posta sbagliata. «Si è trattato di un grave errore del mio ufficio, già sovraccarico di lavoro», ha detto il dirigente del Dap. Il 24 aprile scorso, infatti, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, spiegando perché aveva concesso i domiciliari a Zagaria, scriveva di aver chiesto al Dap di verificare l’eventuale possibilità di trasferimento «in altro Istituto penitenziario “attrezzato” per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure». Ma dal Dap non ci fu risposta. Considerazione generazionale: nel 2020 si possono ancora accettare delle scuse legate all’incapacità di gestire una tecnologia semplice come la mail?
Per fortuna, nel Palazzo di Giustizia di Reggio Emilia i magistrati di sorveglianza hanno deciso di respingere l’istanza di messa agli arresti domiciliari per Raffaele Cutolo, presentata dagli avvocati e dalla moglie Immacolata Iacone. Il notissimo boss della camorra è in carcere ormai da oltre 40 anni e con una salute piuttosto malmessa.
Il ministro sapeva? Una volta che la notizia è arrivata all’opinione pubblica è iniziata la danza dello scaricabarile. A danzare con la musica di un valzer sono il Ministero della Giustizia, il Dipartimento delle carceri e i giudici di sorveglianza. Il ministro Bonafede, subito dopo le scarcerazioni di Bonura e di Zagaria, ha reagito con dei post su Facebook in cui ribadiva l’impegno del Governo nella lotta alle mafie. Inoltre ha negato qualsiasi responsabilità e voce in capitolo sulle decisioni di mandare i boss ai domiciliari. Ma Romano racconta di una videoconferenza, del 20 marzo, in cui «le presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia confermano la drammaticità della situazione nelle carceri». Romano chiede anche «se può essere d’aiuto che si facciano giungere ai tribunali le segnalazioni sui detenuti più esposti. La risposta è positiva ma non entusiasta». Il giorno dopo la nota è pronta. Alla videoconferenza sono presenti, secondo Romano, «il ministro, i giudici di sorveglianza Fiorillo, Di Rosa, Lazzaroni e il presidente della Anm Poniz». Dunque anche il guardasigilli Bonafede. Romano aggiunge anche che il 21 marzo mattina, alle 8.31, scrive una mail a Francesco Basentini, a capo del Dap, in cui afferma come gli sia parso «che nella video-call del giorno precedente fosse emerso l’ok». La risposta di Basentini è: «per me va benissimo». A quel punto Romano invia la circolare alla dirigente di turno «specificando che c’era l’assenso del Capo Dipartimento».

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