La corretta analisi di immagini e video ad uso forense necessita di competenze spesso sottovalutate. Alcune proposte per preservare fonti di prova e sicurezza nazionale

La videosorveglianza svolge, insomma, un ruolo cardine: lo dimostrano diversi articoli scientifici e di cronaca. Si tratta della fonte di prova più pervasiva e utile non solo a identificare i colpevoli, ma anche a tracciare le dinamiche di un determinato evento. Tuttavia, non sono solo le immagini e i filmati derivanti dalla videosorveglianza ad essere utilizzati in ambito forense, bensì anche altre prove fotografiche quali quelle acquisite da dispositivi come i cellulari, o quelle scaricate da social media, nonché altri dispositivi come le telecamere indossate dalle Forze dell’Ordine, le foto della scena del crimine, i droni e – in generale – qualsiasi congegno capace di riprendere un fatto.

Video e immagini vengono dati per scontati

Le premesse appena fatte non riflettono, purtroppo, la realtà delle cose. Mi spiego meglio: le fonti di prova non sono sempre trattate in maniera rigorosa come avviene, per esempio, nel caso del DNA e delle impronte digitali, oppure in quello più particolare della tossicologia. Questa percezione è ironicamente presente anche nelle serie TV: in qualsiasi fiction del calibro di “CSI” abbiamo, da una parte, gli analisti di laboratorio con tanto di camice che esaminano al microscopio ogni singolo dettaglio, in netta contrapposizione con gli investigatori non specializzati, che si infervorano e cercano di zoomare immagini e video per identificare aspetti non tangibili dell’accaduto. Ecco come la realtà si riflette anche nella finzione. Questo per dire che, nei fatti di cronaca, vi è uno scarso livello di conoscenza e di approccio per lavorare con certi tipi di dati.
Si parte dal presupposto che chiunque è in grado di “leggere” una fotografia o un filmato. Chiunque può schiacciare play o scaricare un’immagine e cercare di interpretarla. Questo fa sì che chi si trova a lavorare con questo tipo di dato spesso non abbia una formazione adeguata né, tantomeno, la strumentazione che serve per svolgere questo tipo di lavoro in maniera corretta. Il punto è che “non sappiamo ciò che non sappiamo” e non ci chiediamo cosa non sappiamo perché partiamo dal presupposto che un’immagine, sì, sappiamo vederla. Questo articolo ha quindi per obiettivo sia quello di sensibilizzare tutte le parti coinvolte nell’ambito investigativo e giudiziario sulle attuali sfide e problematiche determinate da un uso inadeguato della videosorveglianza, che quello di proporre soluzioni utili e applicabili in pratica.
Partiamo da questo presupposto: la pervasività e l’efficacia delle fonti di prova video-fotografiche fa sì che queste possano, se utilizzate male, lasciare a piede libero un criminale o accusare un innocente sulla base di un’analisi non scientifica di un filmato.

Analisi video: errori tipici e problematiche

Ci tengo, di seguito, ad elencare due dei più tipici errori che vengono commessi in relazione alla video sorveglianza.

  • Il primo, largamente comune e insidioso, è legato alle immagini ad infrarosso

Molte telecamere, in condizione di scarsa luminosità, utilizzano un illuminatore ad infrarosso: in questo caso l’intensità dei pixel che compongono un oggetto nel filmato non ha alcuna relazione con il suo reale colore. Ad esempio (Fig. 1), il fatto che una maglia risulti “chiara” all’infrarosso, non implica affatto che sia di colore chiaro (potrebbe anche essere nera, ad esempio), ma indica solamente come il materiale di cui è fatta riflette l’infrarosso.

Tutto ciò può provocare errori nell’identificazione di un colpevole e deviare un’indagine. Stiamo parlando di segnali (luce visibile e infrarosso) completamente diversi e che non possono essere confrontati: se lavoriamo con la consapevolezza che l’infrarosso ha questo limite, il nostro giudizio non sarà viziato da una rappresentazione fuorviante.

  • Il secondo consiste nella compressione di immagini e filmati digitali, con relativo impatto sui dati

La compressione viene applicata, sostanzialmente, ad ogni immagine e filmato che abbia formato digitale. Senza compressione la memoria del nostro cellulare o delle nostre videocamere ci consentirebbe di riprendere, al massimo, qualche minuto. Poi la memoria sarebbe satura: ciò renderebbe impossibile l’invio o la condivisione via internet. Ma cosa fa, quindi, la compressione? Riduce la quantità di dati necessaria, sfruttando le parti uguali o simili all’interno dello stesso fotogramma e fra fotogrammi adiacenti. Inoltre, elimina i dettagli meno rilevanti dal punto di vista percettivo. Se parliamo quindi di foto o video delle nostre vacanze, tutto ciò è utile e sensato.
Tuttavia, lo stesso procedimento applicato al contesto forense, potrebbe eliminare dettagli di fondamentale importanza e, addirittura, creare nuovi elementi fittizi (chiamati “artefatti”, Fig. 2).

Serve un’adeguata competenza tecnica per imparare a capire di che parte dell’immagine ci si può fidare, e di che parte non ci si può fidare: questo minimizzerà il pre-condizionamento (il cosiddetto “bias”), che un investigatore potrebbe avere quando – ad esempio – una targa è scarsamente leggibile. Non solo: bisogna tenere a mente che ciò che non vediamo in un filmato, non significa necessariamente che non sia stato presente sulla scena o accaduto. Queste problematiche risultano tanto più importanti, quanto più è minuto il dettaglio di interesse, quanto più rapido è stato l’eventuale movimento, e quanto più è compresso il filmato. Ecco perché, nell’ambito di un dibattimento, è facile ritrovarsi a discutere della scarsa affidabilità di un blocco di pochi pixel.
Queste sono solo due delle molte problematiche legate all’analisi forense di immagini e filmati. Se lavoriamo con la consapevolezza di queste due prime criticità, le indagini saranno condotte in maniera meno fuorviante.

Analisi video e formati proprietari: una sfida quotidiana

Spesso i filmati di videosorveglianza sono in formato proprietario. Ciò significa che non possono essere riprodotti da player standard, tipo Windows Media Player o VLC, ma necessitano del software del produttore, tipicamente del tutto inadeguato per un’analisi forense.
Al fine di effettuare l’analisi, i filmati vanno perciò convertiti. Questa è un’altra fase delicata, in quanto la conversione fatta senza i giusti accorgimenti provoca tre tipi di problemi:

  • la perdita dell’originalità dei file, con un evidente impatto sulla catena di custodia che deve essere mantenuta per ogni fonte di prova
  • la perdita di qualità
  • la perdita di metadati (quali ad esempio le informazioni di data e ora per ogni fotogramma)

Bassa qualità

Accade spesso che la qualità dei filmati non sia sufficiente per ottenere le informazioni necessarie. Tuttavia, se si utilizzano gli strumenti corretti, è possibile raggiungere (sempre che ci siano i presupposti tecnici) risultati ottimali. L’elaborazione va svolta in maniera rigorosa, utilizzando metodologie applicabili in ambito forense e validate dal punto di vista scientifico, altrimenti la prova potrebbe non risultare affidabile durante il dibattimento. Abbiamo condotto una ricerca, coinvolgendo i nostri utenti, dalla quale è risultato che, nel 50% dei casi, si riesce ad ottenere un miglioramento (Fig. 3), magari parziale, ma tuttavia utile alle indagini.

Deepfake e manipolazioni

L’esigenza di validare l’autenticità di immagini e filmati è di importanza prioritaria. Ultimamente sentiamo parlare diffusamente di deepfake (alterazioni delle immagini con tecniche di intelligenza artificiale, Fig. 4), ma nei casi reali ci si imbatte spesso in manipolazioni molto più semplici. Non è nemmeno necessario modificare un’immagine per poi utilizzarla in maniera fraudolenta: se pensiamo al riutilizzo di un’immagine fatta in un’altra data, oppure ad una messa in scena da usare come fonte di prova o come alibi, non si tratta di deepfake, ma di un risultato molto più semplice da ottenere. Appare oggi necessario considerare la manipolazione come un’eventualità spesso possibile e quindi da prendere in considerazione quando ci si appresta ad esaminare una fonte video.

Come lavorare correttamente con le fonti di prova video

Tutte le problematiche che ho elencato sono risolvibili con qualche accorgimento che va considerato prima di prendere in mano un file e iniziare ad esaminarlo.

Il primo punto, e forse il più importante, è la sensibilizzazione della politica e degli organi decisionali. Certe difficoltà vanno comunicate adeguatamente ai governi e tutte le parti coinvolte. Una volta metabolizzato che la videosorveglianza e le analisi video devono essere trattate in maniera scientifica e non vanno date per scontate, sarà necessario lo sviluppo di programmi di formazione scientifica degli operatori delle Forze dell’Ordine. Non è necessario, né indicato, che tutti gli agenti diventino degli esperti forensi, ma è fondamentale creare una base culturale in cui si assumano le complessità di questo tipo di dato e quindi:

  • Fornire una formazione generica di poche ore, potrebbe aiutare gli operatori, gli agenti e gli investigatori nel loro lavoro e risolvere, di conseguenza, problematiche che a volte sembrano insormontabili. Creare una sorta di libro bianco, dove elencare pochi e semplici concetti per evitare errori grossolani quando si prendono in esame fonti di prova video o fotografiche, potrebbe fungere da supporto pratico
  • Comprendere la criticità dell’acquisizione corretta. Troppe volte si vedono filmati di videosorveglianza acquisiti filmando lo schermo con uno smartphone e trasmessi via WhatsApp. Senza arrivare a questi estremi, anche l’esportazione da un sistema di videosorveglianza è un aspetto delicato che andrebbe fatto in maniera atta a preservare la catena di custodia e l’originalità del dato. Questo permetterebbe la massima qualità possibile e una più certa accettabilità del dato in fase giudiziaria
  • Autenticare e verificare i filmati ricevuti, sia per confermare una corretta acquisizione, come indicato al punto precedente, che per poter indentificare eventuali manipolazioni o problemi di autenticità o originalità dei dati. L’elaborazione, l’eventuale miglioramento e l’analisi devono seguire metodologie scientifiche, essere corrette, ripetibili e riproducibili, utilizzando un flusso di lavoro e algoritmi validati dalla comunità scientifica
  • Promuovere più efficacemente le linee guida internazionali già esistenti, ad esempio quelle dell’ENFSI DIWG, o delle americane SWGDE e OSAC, con seminari e attività didattica.

Martino Jerian – fondatore di Amped Software