Suicidi, isolamento, criminalità. Le carceri italiane continuano ad essere un mondo separato dalla società civile, un “ambiente tossico” dove il percorso riabilitativo del detenuto è solo un miraggio. La misura è colma ma le tensioni vengono strumentalizzate per attuare ulteriori misure repressive. Ne abbiamo parlato con il professor Patrizio Gonnella, presidente di Antigone
L’idea di realizzare questa intervista nasce in occasione del 60esimo anniversario della storica associazione Magistratura Democratica, evento tenutosi a Roma lo scorso 9 novembre presso la sala della Protomoteca del Campidoglio. In quell’occasione sono rimasto molto colpito dall’intervento del professore Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, realtà nata nell’ormai lontano 1991, che si occupa di garantire diritti e garanzie nel sistema penale e penitenziario.
Tra i numerosi rapporti redatti da Antigone sul mondo carcerario, ampio margine viene dedicato alla tragedia dei suicidi negli istituti di pena. I dati relativi al 2024 sono impietosi: 88 detenuti si sono tolti la vita, l’ultimo il 31 dicembre. Nel succitato intervento dello scorso 9 novembre, il professor Gonnella evidenziava una stretta connessione tra i suicidi e l’isolamento; come spiega la stessa associazione, non esiste una definizione univoca di “isolamento penitenziario” che, in senso ampio, consiste nella «separazione fisica di una persona detenuta dal resto dei detenuti».
A onor del vero, va detto che l’isolamento non viene attuato solo come misura punitiva ma il più delle volte è una misura volta a tutelare il detenuto stesso. Mi riferisco a quei casi, purtroppo frequenti, in cui il detenuto “più debole”, che si trova a condividere una cella con altre cinque persone, finisce spesso per subire vessazioni e umiliazioni. Viene preso a schiaffi per ogni…..
di Vittorio Vannutelli