La sensazione è che ogni 25
aprile facciamo un passo indietro. Lo diciamo con rammarico ma anche con lucidità.
I segnali d’altronde ci sono da anni e i “negazionisti” della matrice
antifascista del nostro Stato democratico (quelli con la fiamma, per
intenderci) sono andati oltre la conquista delle più importanti cariche istituzionali:
hanno acquisito un linguaggio, una loro narrazione, una asettica posizione
apparentemente post-ideologica, che incredibilmente funziona; si arrogano
tranquillamente il diritto di ignorare o minimizzare il significato di questa
granitica ricorrenza e, più in generale, della Resistenza al nazifascismo. «I
veri fascisti, oggi, sono gli antifascisti» sembrano ripetere meccanicamente.
Diventerà un “motto” in futuro? Chissà.
Negano e si negano in modo
fumoso, non vogliono e non “possono” prendere una chiara posizione politica,
storica, nei confronti degli anni più bui della storia italiana. Semplicemente
perché non gli conviene. Prendono le distanze, certo, la scuola è quella
“fiuggiana”, ma non rinnegano apertamente le loro radici. E forse è giusto
così. Ormai è tanto inutile quanto stucchevole continuare a chiedergli sotto
Palazzo Chigi di dichiararsi antifascisti. A quanto pare, hanno anche un nome:
sono afascisti.
Chiamiamoli così allora. Se
questo è il nome che preferiscono, che entrerà nei prossimi libri di storia,
che soprattutto risparmierà ulteriori querele, processi, censure indirette e
non, a tutti coloro che avranno qualcosa da dire, ci adeguiamo anche noi.
Anticipiamo subito, però, che neanche gli afascisti ci piacciono. Prima parlavamo
di “andazzo”, ora sembra di andare proprio alla “deriva”, una deriva che ci
porta sempre più a destra. La brutta notizia, poi, è che questa tendenza,
questo progressivo “allentamento democratico”, sta contagiando tutta Europa.
Con tanto di cattivi presagi in politica estera.
Nel nostro Paese tale
“allentamento” continua a palesarsi nelle piazze, nelle università, nelle
carceri (perfino minorili), nell’ormai fuori controllo dibattito mediatico dove
(non abituiamoci mai!) sentiamo dire veramente di tutto… Discutibili “signori”
candidati alle europee – che fino a qualche anno fa sarebbero stati considerati
“impresentabili” – oggi rischiano di guadagnare una poltrona a Bruxelles,
mentre un governo mai così autocelebrativo marcia inesorabile verso
l’attuazione di riforme che non possiamo non definire “pericolose” per la
nostra democrazia, dall’autonomia differenziata fino al temibilissimo
premierato. Preoccupazioni condivise anche dalla stampa straniera già da anni,
basti citare il celebre quotidiano britannico Guardian che nel settembre
del 2022, all’indomani del successo elettorale di Giorgia Meloni, titolò senza mezze
misure: «In Italia il governo più a destra dalla Seconda guerra mondiale»; un
governo, specificava, di «radici postfasciste». Ed eravamo solo agli inizi…
Chiudo con due considerazioni,
con le quali, a mio modesto avviso, dobbiamo fare i conti: la prima è che siamo
addentrati negli anni Duemila, non c’è più bisogno di assaltare le redazioni
dei giornali o le case del popolo per reprimere il dissenso (anche se il
ricorso alle “maniere forti” resta sempre un’opzione possibile); secondo – ed è
un dato incontrovertibile – hanno un discreto consenso, possono contare su un
elettorato compatto, anche se molto più “variegato” (o “variopinto”) di quello
che vogliono far sembrare. Stiamo scoprendo che di afascisti, di indifferenti,
di disinformati, di pseudo-nazionalisti-sovranisti, in questo Paese ce ne sono
davvero tanti. Il campo glielo abbiamo lasciato noi, quelli che credono
pienamente nella democrazia; ora, in teoria, bisognerebbe provare a
riprenderselo quello spazio (democraticamente, ben inteso) ma la strada è già
bella in salita. E la pendenza può repentinamente aumentare, dipende molto da
noi.
Il direttore
Ugo Rodorigo