Il sovraffollamento carcerario rappresenta un tema di perdurante attualità ma non per questo irrisolvibile. Un recente studio affronta il problema, collocando la sua evoluzione nelle caratteristiche del sistema interno, spesso trascurate nel dibattito pubblico, e cercando, dati alla mano, possibili soluzioni. Ne abbiamo parlato con la professoressa Anna Lorenzetti e il dottor Francesco Picozzi
Prof.ssa Lorenzetti, dott. Picozzi, il sottotitolo del vostro libro sembra spegnere ogni speranza: il problema del sovraffollamento viene definito “irrisolvibile”. Spiegateci meglio.
In realtà, utilizzando le virgolette, volevamo intendere il contrario. Il problema è serio, ma non proprio irrisolvibile. Il primo passo in questa direzione, però, sta nel prendere consapevolezza che ci si trova di fronte a un concetto solo apparentemente scontato e oggettivo.
Per essere chiari: si ha sovraffollamento quando in una o più strutture carcerarie è ristretto un numero di persone superiore alla capienza. Ma la questione, ampiamente trascurata dalla dottrina e dai mass media, sta nel fatto che esistono molti modi per calcolare questa capacità ricettiva. Per fare un esempio, ancora oggi ci sono molti che credono che i 51 mila posti della capienza regolamentare dei penitenziari italiani siano calcolati secondo la regola dei 3 mq pro capite sancita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Agli occhi di chi crede questo, la situazione delle nostre carceri appare – comprensibilmente – di una gravità inaudita. In realtà, le cose stanno in maniera diversa, poiché la capacità delle strutture italiane è calcolata secondo il criterio “9+5” (9 mq per una camera singola, ai quali vanno aggiunti 5 mq per ogni posto ulteriore). Questa precisazione spiega anche il perché, nelle statistiche europee, il nostro sistema risulta essere più sovrappopolato rispetto a quelli di Stati obiettivamente non rinomati per la qualità della vita intramuraria. Insomma, la……
di Michele Turazza