Sono i “sex offender”, gli ex appartenenti alle Forze dell’ordine, i collaboratori di giustizia, reclusi in reparti speciali come detenuti a “rischio”. È un trattamento penitenziario corretto? Lo abbiamo chiesto alla psicoterapeuta Carla Maria Xella
In quasi tutti gli istituti di detenzione, esistono delle piccole sezioni in cui vengono ammassati i detenuti che sono a rischio della loro incolumità rispetto agli altri detenuti così detti “comuni”, che hanno cioè commesso reati anch’essi ritenuti comuni dalla legge e dal pensare collettivo della maggioranza dei cittadini.
I reati “comuni” sono lo spaccio, la rapina, l’estorsione, l’usura, finanche all’ l’omicidio. I reati cosiddetti “odiosi” sono i maltrattamenti in famiglia, la violenza sessuale in tutte le sue forme, fino al femminicidio. Questi reati, in quanto “odiosi”, suscitano una particolare avversione nell’opinione pubblica e, soprattutto, tra i detenuti “comuni” che potrebbero arrivare anche ad uccidere gli autori di reati sessuali che, spesso, non sono neanche dai veri e propri criminali.
Al fianco di questa tipologia di detenuti particolari, ci sono altri detenuti che risultano “odiosi” per altri ovvi motivi. Tra questi figurano ex appartenenti alle Forze dell’ordine o ad altri specifici reparti dello Stato e infine gli “odiatissimi”, gli “infami” veri, i pentiti e i collaboratori di giustizia.
Questi detenuti vengono chiusi tutti insieme in un piccolo reparto speciale, il c.d. precauzionale. Una sorta di carcere nel carcere, con tantissime limitazioni delle attività più importanti come lo sport, il teatro, la musica, corsi di formazione o di aggiornamento, lavori esterni alla sezione. Reclusi dai reclusi, chiamati tutti indistintamente “infami”. Anche per gli operatori volontari diventa più difficile accedere al reparto precauzionale e a volte è il pregiudizio stesso a frenarli. Addirittura Il personale sanitario e penitenziario, in alcuni casi, ha difficoltà a trattare con autori di reati “odiosi”.
Vittorio Rizzo