Da una parte l'esigenza dello Stato di tutelare cittadini e istituzioni dalle organizzazioni criminali; dall'altra quella di assicurare al detenuto un trattamento sanzionatorio non lesivo dei diritti fondamentali
Le recenti polemiche sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto per reati di associazione terroristica, hanno riportato al centro del dibattito politico e giornalistico il cosiddetto “41-bis”, un particolare regime carcerario introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento penitenziario dalla Legge Gozzini n. 663 del 1986, passata alla storia per la fitta trama di benefici, misure premiali e alternative alla detenzione concedibili ai detenuti che si trovino in determinate condizioni al fine di valorizzare, anche nella fase esecutiva della sanzione penale, quella finalità rieducativa alla quale, per espresso disposto dell’articolo 27 della Costituzione, devono tendere le pene.
L’ironia della sorte vuole che questa normativa, all’epoca della sua approvazione oggetto degli strali dei fustigatori di un presunto buonismo lassista e perdonista, venga oggi bersagliata dalle parole contundenti scagliate dai censori di un asserito forcaiolismo vendicativo coltivato dallo Stato disumano. Perché? Per essere stata, a detta degli ultras di questa curva contrapposta, il primo germoglio di una malapianta incostituzionale, addirittura bollata come degradante “tortura di Stato”.
Cerchiamo di fare chiarezza, senza scottarci col magma rovente delle parole in libertà, tanto più gravi quando provengono non da politicanti arruffapopolo in cerca di facili consensi, ma da ambienti giudiziari e accademici che dovrebbero restare a debita distanza dalle rozze semplificazioni e dagli acidi estremismi dell’agone politico-mediatico.
Francesco Moroni