Nonostante il contributo dei collaboratori di giustizia si sia rivelato determinante per l’accertamento delle responsabilità in molti processi contro mafie e terrorismo, la normativa presenta tuttora delle criticità che devono essere risolte. Ne abbiamo parlato con il magistrato Luca Tescaroli
Il fenomeno del c.d. “pentitismo”, sebbene l’attenzione mediatica si sia ormai spenta da tempo, rimane cruciale per il contrasto ad ogni forma di consorteria mafiosa. Secondo Giovanni Falcone esso si sviluppò come effetto di indagini ben condotte (e non viceversa): infatti, soltanto quando fu evidente che lo Stato avrebbe fatto sul serio, apparendo più credibile, sono intervenute le prime collaborazioni con la giustizia.
Di recente è stato pubblicato per i tipi di Rubbettino un agile volumetto che propone una ricostruzione storica del “pentitismo”, mediante un’analisi puntuale dell’evoluzione della legislazione premiale e delle criticità incontrate nella sua applicazione, fino alle recenti pronunce sul trattamento riservato ai c.d. “irriducibili”, cioè coloro che rifiutano ogni forma di collaborazione con gli inquirenti. Polizia e Democrazia ha incontrato l’autore, Luca Tescaroli, attualmente Procuratore Aggiunto presso la Direzione distrettuale Antimafia di Firenze.
Dott. Tescaroli, cosa si intende esattamente per “pentiti”, titolo del suo nuovo libro?
L’espressione si riferisce a chi inizia a collaborare con la giustizia, avendo fatto parte di un sodalizio mafioso o terroristico-eversivo, e….
di Michele Turazza