Se il tempo del colonialismo sembrava lontano, Trump volgarizza il discorso postcoloniale. La nuova narrazione USA presenta il pensiero “America First” come risultato “necessario” di un mondo sempre più in competizione e dipendente. Da impositore della dipendenza, l’Occidente democratico si è trovato nella posizione opposta, suddito nel mercato globale di paesi non democratici ma competitivi nel sistema di matrice occidentale

Risuona il vento tra i pendii del fiordo di Godthåb. La neve si alza tra i muri delle case colorate, creando mulinelli che sotto la luce dei lampioni sembrano danzare al ritmo di tamburi. Ci troviamo a Nuuk, capitale della Groenlandia, nella zona sud dell’isola non continentale più grande al mondo. 250 km più su si trova il Circolo Polare Artico. Lì è il bianco a far da padrone. Spesso la neve si confonde con il cielo eliminando la linea dell’orizzonte. È la terra degli orsi polari, dove le condizioni per l’esistenza umana sono al limite.

Eppure Groenlandia significa “terra verde”. L’immagine che si crea nella mente è di alte scogliere verdeggianti, prospere alla vita. A darle il nome di “terra verde” fu Erik il Rosso – secondo le saghe islandesi – che, esiliato dall’Islanda per omicidio, salpò con la sua famiglia e i suoi schiavi, alla scoperta di una terra ignota a nord-ovest di cui si narrava nelle storie e nelle canzoni. Dopo aver trovato un’area abitabile e essersi stabilito lì, chiamò quella terra Grønland, presumibilmente nella speranza che il nome attirasse nuovi coloni. Ma il nome di questa terra ignota a nord-ovest non è “terra verde”. Il vero nome è Nunaat che significa «Terra del popolo». Un nome potente che scava in una storia riscritta dal colonialismo fino al cuore di una popolazione indigena, gli Inuit. Un popolo artico che negli anni ha sempre lottato per la propria indipendenza dal potere coloniale occidentale e che dal 2025 potrebbe veder frantumare il…..

di Riccardo Sacchi