Sono settimane che assistiamo attoniti al dramma afgano, alla fuga disperata di centinaia di persone dal loro luogo d’origine, di scene strazianti di madri che, in lacrime, lasciano partire i loro figli, in alcuni casi degli infanti, nel disperato tentativo di trarli in salvo da un paese di nuovo sull’orlo del precipizio.

È dalla storia antica che l’area dell’odierno Afghanistan viene invaso, conteso, destabilizzato e poi lasciato a sé stesso. Da Alessandro Magno ai mongoli di Genghis Khan, dal primo califfato in epoca medievale all’invasione delle truppe sovietiche alla fine degli anni ’70, nulla di tutto ciò ha mai giovato a un popolo che da sempre stenta a trovare la sua strada.

Sono passati quasi vent’anni dall’intervento delle armate statunitensi in Afganistan, vent’anni dal tragico attacco alle Torri Gemelle di New York. Vent’anni di instabilità politica e di guerriglia. Vent’anni di niente: una volta ammainata la bandiera a stelle e a strisce, il paese è ritornato esattamente al punto di partenza, con la fazione talebana pronta a riprendersi il potere che aveva conquistato nel 2006, sfuggito di mano per via di una cellula terroristica, una scheggia impazzita, quell’Al Qaida guidata da Osama Bin Laden e finanziata dai miliardi tirati su con gli oppiacei venduti all’Occidente… a rimetterci erano e continuano ad essere gli afgani stessi.

Prima di condannare un popolo così diverso da noi, così distante per usi e costumi, per religione e storia, bisogna chiedersi cosa hanno rappresentato (e quanto sono costati) vent’anni di missione statunitense in Afghanistan: il loro intervento ha contribuito a esportare un modello di democrazia? Ha portato in quel paese mercati, tecnologie e progresso? Ha estirpato il terrorismo dall’area? Difficile trovare una risposta positiva. Il fallimento degli Usa in Medio Oriente non è solo militare quanto piuttosto politico e ideologico. Il 12 luglio scorso la fine della seconda fase della presenza americana in Afghanistan, la c.d. Resolute Support Mission, non ha avuto niente di risolutivo, anzi: se non è un nuovo Vietnam, poco ci manca.

È facile ora condannare gli afgani come un popolo arretrato, chiuso, riluttante verso aiuti offerti dalle potenze occidentali. La disperazione di migliaia di persone al nuovo colpo di coda talebano sembrerebbe dimostrare il contrario, ossia che un desiderio di cambiamento ci sia sempre stato, beninteso, senza rinnegare sé stessi, le loro tradizioni, la loro storia. Ma la questione è più complessa e le risposte sono da cercare altrove, non certo lì, in quell’arida regione senza sbocchi sul mare. La lezione andrebbe imparata una volta per tutte: il modello democratico non si esporta con gli eserciti, con le bombe intelligenti o per il tramite di stati e capi di governo “fantoccio” (questo si faceva nel secolo scorso). Il dramma afgano è proprio una sconfitta dei paesi democratici e non è certo il primo caso nella storia recente. Ma, soprattutto, non dobbiamo ripetere il solito, ennesimo, errore: non abbandoniamo di nuovo l’Afghanistan a sé stesso.

il Direttore, Ugo Rodorigo

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