Non è soltanto una questione di forma: un utilizzo errato o approssimativo delle parole nei processi può portare a condanne di innocenti e assoluzioni di colpevoli, cioè a una “giustizia non giusta“. Lo studio della linguistica può fornire un contributo decisivo alle professioni legali e all’attività degli operatori di polizia. Intervista all’Avv. Iacopo Benevieri

Angelo Massaro è stato il protagonista di uno degli errori giudiziari più clamorosi nel nostro Paese. Condannato per un omicidio mai commesso, ha trascorso ingiustamente ventuno anni in carcere. Alla base della condanna, un’erronea percezione, e conseguente trascrizione, di un’intercettazione telefonica nella quale Massaro disse la frase, in dialetto pugliese, “Sto portando stu muers”. Quest’ultima parola, che indica un generico oggetto ingombrante, fu malamente trascritta in “muert” (morto). Solo una successiva e attenta analisi del brano intercettato consentì di accertare il gravissimo errore di trascrizione commesso. Da muers a muert: una sola consonante ha determinato l’inabissamento in carcere della vita di una persona innocente, per oltre due decenni.
L’utilizzo delle parole in ambito giudiziario è questione cruciale e complessa. Parole che vengono pronunciate e scritte da tutti gli attori di procedimenti e processi che si svolgono quotidianamente nelle aule di giustizia: avvocati, testimoni, magistrati, imputati, consulenti, agenti e ufficiali di polizia. Ognuno di loro interagisce e partecipa col proprio linguaggio, dando troppo spesso per scontato che il semplice praticare una lingua equivalga automaticamente anche a conoscerne i delicati meccanismi di funzionamento.
Così non è, come dimostra nei suoi scritti e, in particolare, nel suo ultimo libro “La parola (in)difesa” (edito da Giappichelli), l’Avv. Iacopo Benevieri, penalista e responsabile della Commissione sulla linguistica giudiziaria della Camera Penale di Roma: «[…] queste pagine – precisa – offrono la prospettiva non……

di Michele Turazza