L’incredibile sequela di umiliazioni, bocciature e delegittimazioni che l’establishment politico-giudiziario riservò a due grandi servitori dello Stato tanto osannati da morti quanto vilipesi in vita

Pochi giorni dopo la strage di Capaci, esasperato dal coro stucchevole dei professionisti del cordoglio, che celebravano la breve vita infelice di Giovanni Falcone come se fosse stata unanimemente apprezzata e premiata da pubblici riconoscimenti, il giornalista Mario Pirani gettò una robusta sassata nello stagno dell’ipocrisia collettiva paragonando il magistrato palermitano al colonnello Aureliano Buendia, il personaggio letterario protagonista del capolavoro di Gabriel Garcia Marquez, “Cent’anni di solitudine”, che dette trentadue battaglie e le perse tutte. A trent’anni di distanza, è ancora la similitudine più efficace e il più corretto paradigma interpretativo.

Nessun uomo, nel nostro Paese, ha accumulato più sconfitte di Giovanni Falcone nella sua traiettoria umana e professionale indissolubilmente legata a quella di Paolo Borsellino in una vicenda degna delle “Vite parallele” di Plutarco. Altissimo – in termini di umiliazioni, bocciature e impetuose tramontane calunniose che in uno stillicidio di delegittimazioni anticiparono il tritolo mafioso – fu il prezzo che l’establishment fece pagare loro per aver osato infrangere il mito dell’intoccabilità di Cosa Nostra durante il Maxiprocesso di Palermo, capolavoro investigativo-giudiziario da loro istruito insieme alle altre toghe del pool antimafia coordinato da Antonino Caponnetto.

Da “materia per conferenze” e “accolita di bande disordinate”, come diceva fino ai primi anni Ottanta qualche procuratore generale all’insegna del più becero riduzionismo sottovalutativo e del sociologismo parolaio, la Piovra finiva finalmente alla sbarra, vivisezionata nella sua struttura unitaria, verticistica e piramidale. Processata non più sub specie sanguinis, come criminalità comune che ogni tanto sigilla col piombo il suo business, ma sub specie mafiae, in applicazione della normativa ad hoc entrata in vigore dopo gli omicidi di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982. Una rivoluzione copernicana nei metodi d’indagine, che grazie al talento inquirente, alla tenacia e al fiuto visionario di Falcone per la prima volta affondavano il coltello nelle pieghe del segreto bancario, dei verbali dei consigli di amministrazione, delle rotte del denaro (Follow the money) ricostruite attraverso il primo embrione di cooperazione giudiziaria transnazionale in tempi e modi allora pionieristici. E con una conoscenza insuperata del fenomeno mafioso nelle sue irriducibili specificità, nei suoi codici culturali, nelle sue molteplici interrelazioni con pezzi del potere politico, economico e giudiziario, frange del libero professionismo (avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri), settori del mondo ecclesiastico, interrelazioni che da oltre un secolo e mezzo sono il vero brodo di coltura e l’autentica cifra distintiva che hanno differenziato lo sviluppo e la sorte di Cosa Nostra da quelli del brigantaggio e dei terrorismi di matrice ideologico-politica.

 Francesco Moroni