«Perso per perso, siamo cercando di lasciare indietro una terra ingovernabile. Per chi verrà dopo, che certo non sarà nostro amico»

«Noi ce ne stiamo per andare, loro stanno per tornare; oltre trenta milioni di uomini e donne sono destinati ancora una volta a restare in trappola, presi in una rete di errori e crimini di cui non si riesce a vedere la fine». Così scriveva, nel 2019, Gastone Breccia, professore ed esperto di storia militare, nel suo libro sul fallimento della missione dell’Occidente in Afghanistan. Una sconfitta chiara, annunciata, di cui moltissimi, politici e alti ufficiali, erano perfettamente consapevoli ormai da anni. Una sconfitta frutto di assenza di qualsiasi strategia, di «tragica manifestazione di tracotanza, pressapochismo, incapacità politica e impotenza militare, le cui disastrose conseguenze saranno evidenti solo negli anni a venire». In realtà è bastata qualche settimana perché i talebani riconquistassero quelle zone del paese ancora sotto il controllo delle forze governative, ormai allo sbando. È stato un agosto tremendo per milioni di persone che avevano sperato in un futuro migliore, promesso dall’Occidente in vent’anni di interventi militari.

Prof. Breccia, quando e come ha iniziato ad interessarsi all’Afghanistan e a che titolo, ormai dieci anni fa, decise di visitare questo Paese?

La storia è abbastanza semplice. Nel 2009 avevo scritto il mio primo saggio di storia militare, il volume dedicato all’Arte della guerra da Sun Tzu a Clausewitz, e nel febbraio del 2011 venni chiamato a presentarlo al comando della brigata Folgore a Livorno, la mia città. In quell’occasione il generale comandante mi chiese delle mie ricerche, e io gli dissi che mi stavo occupando soprattutto di guerriglia e controguerriglia, perché in epoca bizantina (X secolo) era stato scritto il primo testo di teoria della “guerra irregolare” della nostra civiltà. Il generale mi disse: «Bene professore, potrebbe venire con noi in Afghanistan a vedere con i suoi occhi come si fa la controguerriglia oggi!» e io gli risposi subito che se mi ci portava, sarei andato senz’altro. Tre mesi dopo ero in volo verso Herat.

 

Da profondo conoscitore di questa realtà, così lontana da noi sia geograficamente che culturalmente, secondo lei è possibile studiarla e comprenderla seguendo paradigmi (non soltanto religiosi, ma anche culturali, giuridici, sociali, economici) propri dell’Occidente?

Studiarla e comprenderla certamente sì: abbiamo tutti gli strumenti per farlo, ci sono insigni studiosi della cultura, della religione e del diritto islamici che possono fornirci tutte le informazioni necessarie. E ci sono gli storici che possono spiegarci, nei limiti delle loro competenze, cos’è successo in Afghanistan almeno da Alessandro Magno in poi. Certo dobbiamo fare uno sforzo, e non limitarci a giudicare la realtà afgana secondo il nostro sistema di valori occidentale (che si è consolidato, del resto, solo in epoca relativamente recente: diciamo dal XVIII secolo in poi), ma accettare che possa esistere una visione del mondo basata su altri principi. La legge coranica (la sharia) su tutto; accanto ad essa il codice tradizionale di comportamento – il celebre pashtunwali – che, in buona parte del paese, regola i rapporti tra persone, gruppi familiari e interi clan.

 

Considerate le divisioni etniche e l’estrema eterogeneità sociale e ambientale, è possibile parlare di un solo “Afghanistan”?

Questa è una domanda non facile. Si parla sempre delle profonde linee di frattura etnico-linguistiche interne al paese: i pashtun del sud e dell’est, i tagichi del nord-est, gli uzbechi del nord-ovest, gli hazara (unici musulmani sciiti di tutto l’Afghanistan) nell’impervia regione centrale, più altri gruppi minori. È vero: pashtun e tagichi sono nemici di vecchia data, gli hazara sono disprezzati e perseguitati da secoli per la loro diversità religiosa, gli uzbechi sono quasi un corpo estraneo; eppure l’Afghanistan, dopo la fine del XIX secolo, sembrava avviato verso una possibile unità nazionale. E non ci sono dei movimenti «separatisti» nel senso classico del termine. Voglio dire: non è impossibile, in teoria, arrivare a un superamento di queste differenze nel nome di una identità afgana. Il problema è in primo luogo la forma di governo da dare al paese, e in secondo luogo il diverso modo di interpretare la sharia, estremamente «rigorista» per i talebani vittoriosi, meno per gli altri. Poi, certo, bisognerebbe far rimarginare le ferite di una guerra civile che dura almeno dal 1995.

 

Lei scrive che nel 2001, oltre all’opzione (fallimentare) dell’intervento militare statunitense convenzionale in Afghanistan (che era esattamente ciò che sperava Bin Laden), ci sarebbe stata un’altra strada: quale? Sebbene la storia non si faccia con i “se”, secondo lei le cose sarebbero potute finire diversamente?

Il 14 settembre 2001, durante la commemorazione delle vittime dell’attentato di tre giorni prima, il pastore della National Cathedral di Washington, DC pronunciò una frase emblematica: “Signore, ti prego: non trasformarci col nostro agire nel male che deploriamo”. Sarebbe stato necessario riflettere con molta attenzione su quelle parole. L’America e l’Occidente hanno sprecato un’occasione unica per conquistare un vantaggio morale enorme sui loro nemici. La risposta poteva e doveva essere di tipo diverso: trattare i terroristi come criminali comuni, dare loro una caccia spietata, isolare completamente il regime dei talebani finché non avesse collaborato, costringere anche il Pakistan a interrompere l’appoggio fornito loro dall’esterno e ad uscire dall’ambigua zona d’ombra dove è rimasto fino ad oggi. Un amico americano mi ha detto che nessun presidente, nemmeno uno più esperto di George Bush Jr., avrebbe potuto sopportare la pressione enorme dell’opinione pubblica dopo gli attacchi del Nine/Eleven senza reagire militarmente. Non lo so. Certo Bush e i suoi consiglieri scelsero subito l’opzione dell’intervento. E quell’intervento ha finito col causare enormi sofferenze ai civili afgani.

INTERVISTA AL PROF. GASTONE BRECCIA

Nel suo libro è chiaro: l’Occidente ha perso. Quali sono stati gli errori politici e strategici che hanno portato al fallimento della guerra in Afghanistan e quando ha iniziato ad essere chiaro che non vi sarebbe stata alcuna via d’uscita?

L’elenco degli errori è molto lungo. Prima di tutto, come appena detto, trasformare una banda di terroristi in un “nemico globale”, andando incontro ai loro stessi desideri; secondo, una volta ottenuto lo schiacciante successo iniziale sul campo, tra l’ottobre e il dicembre del 2001, sarebbe stato più saggio lasciare la gestione del paese agli afgani “amici” dell’Alleanza del Nord, assistendoli dall’esterno, piuttosto che inviare truppe sul terreno (fino ad allora praticamente non ce n’erano); terzo, il mission creep, ovvero lo “scivolamento” della missione verso obiettivi diversi da quelli iniziali, che restarono poco e mal definiti (bisognava limitarsi a garantire la sicurezza del nuovo governo afgano? O dell’intera popolazione? Dare ancora la caccia agli ultimi talebani? Ricostruire il Paese?); quarto, distogliere l’attenzione dall’obiettivo prima di averlo raggiunto, come hanno ammesso poi gli stessi americani, aprendo la campagna in Iraq mentre la situazione in Afghanistan non era ancora risolta; quinto, illudersi di poter vincere una guerra di contro-insurrezione con forze limitate e soprattutto senza l’appoggio convinto del “fronte interno”, ovvero dell’elettorato. Fino all’errore decisivo, che fu più che altro una presa di coscienza di una situazione ormai compromessa, ovvero l’annuncio (fatto dal presidente Obama il 22 giugno 2011) che la missione di combattimento sarebbe terminata il 31 dicembre 2014, e che di lì in poi si sarebbe provveduto soltanto ad addestrare le forze di sicurezza afgane per metterle in grado di difendersi da sole. Dare agli insorti una “data di scadenza” per una missione come quella afgana significa comunicare loro che, se resisteranno un solo giorno in più, avranno partita vinta.

Michele Turazza