Un decreto nato per rafforzare la presunzione di innocenza e arginare possibili eccessi comunicativi delle toghe rischia di limitare irragionevolmente il diritto di informare e di essere informati
Il 14 dicembre 2021 è entrato in vigore il Decreto Legislativo n. 188 del 2021 che, nel recepire una direttiva comunitaria del 2016, detta una nuova normativa sulle modalità di comunicazione ai mass media delle informazioni sui procedimenti penali.
La direttiva 2016/343/UE ha ad oggetto l’adozione, da parte degli Stati membri, di innovazioni legislative volte al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”. Anche in tal caso è stato evocato il mantra fin troppo abusato “Ce lo chiede l’Europa!”, ma se la direttiva comunitaria offriva un dito, i soliti garantisti all’italiana si sono presi l’intero braccio, coniando una disciplina applicativa a dir poco discutibile e foriera di criticità di incerta soluzione.
Il cuore della novella è contenuto nell’art. 3 del d.lgs. in esame, che a sua volta si innesta sulla controversa “riforma Castelli” dell’ordinamento giudiziario varata dal governo Berlusconi nell’ultimo scorcio della legislatura 2001-2006. Una riforma che, fra i tanti effetti distorsivi, ha accentuato l’organizzazione verticistica degli uffici giudiziari requirenti, rafforzando le prerogative del Procuratore della Repubblica anche in materia di informazione giudiziaria.
L’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006, infatti, individua una competenza esclusiva del Procuratore della Repubblica a rendere informazioni sui procedimenti penali, sicché, dopo l’iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, il titolare dell’ufficio sarà l’unico organo legittimato ad intrattenere rapporti con i mass media. Sui sostituti procuratori, invece, grava il divieto, sanzionato in sede disciplinare, di «rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio». Inoltre, «Ogni informazione inerente alle attività della Procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento».
Una stretta, questa, giustificata all’epoca dall’intento di arginare possibili eccessi comunicativi, improvvide esorbitanze verbali e smanie di protagonismo mediatico da parte delle singole toghe titolari di inchieste di spiccata rilevanza pubblica. Proprio in questa cornice già particolarmente restrittiva si inseriscono le prescrizioni imposte dal decreto legislativo entrato in vigore da pochi mesi, fra poche luci e molte ombre. Appare una inutile ripetizione di quanto consacrato nell’art. 27, secondo comma, della Costituzione la precisazione, contenuta nel comma 2-bis, che vada assicurato il diritto dell’indagato e dell’imputato «a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili».
Francesco Moroni